2003 settembre 15 Un anno dalla morte di Agnelli
2003 settembre 15 – Un anno dalla morte di Gianni Agnelli
A un anno dalla scomparsa, sono state ricordate un sacco di cose di Gianni Agnelli, che per
qualcuno resta un illuminato monarca senza monarchia e per altri un capitalista ambiguo con i
politici di turno. A proposito della sua Juve ereditaria, é stato detto e scritto che l’Avvocato
“non amava le sconfitte”.
A parte il fatto che soltanto a un masochista piace perdere, mi é tornata in mente un’intervista a
Helenio Herrera, il “mago” dell’Inter che la pensava esattamente come il Signor Fiat. Quando
sul finire degli anni sessanta gli domandai se si fosse stancato alla lunga anche della Milano del
boom economico, dello stadio di San Siro paragonato alla Scala e degli umori nerazzurri
impalpabili come la nebbia, mi rispose con una risata gitana:” Io penso uguale ai giogadori. Nel
calcio solo le sconfitte stancano.”
Nell’ossessione di vincere, Silvio Berlusconi supera perfino Agnelli ed Herrera, senza fare
differenza tra Mediaset, Milan e Palazzo Chigi. Il risultato perfetto di una partita non é per lui
l’1-0, come sostenevano i vecchi tattici del gioco all’italiana, ma il 5-0 di ieri, bello, tondo,
imbattibile, indiscutibile, berlusconiano quanto il primato di uomo più ricco d’Italia. Il gol é in
fondo un comizio con altri mezzi; sotto sotto, gli avversari in campo debbono sembrargli tanti
“comunisti” in azione, sia pure in mutande e bulloni, senza falce e martello.
Attraverso la metafora sportiva del Milan ama stravincere più che vincere, e gusta più di un
ultrà rossonero di passare alla storia patria come il Signor Scudetto, il presidente multi –
tricolore e multi – coppe. Titolo questo da tempo meritatissimo e che può fare a meno di ogni
lifting.
Del resto, nel mischiare le tante carte dell’immagine e del consenso popolare, Berlusconi ha
non a caso introdotto tra i partiti anche il linguaggio del calcio. La sua entrata in politica é stata
la “discesa in campo”; la sua creatura , “Forza Italia”, evoca un incitamento da stadio e usa un
inno da gradinate elettorali. Nel suo ultimissimo libro, appena uscito, il sociologo Ilvo Diamanti
osserva poi che nemmeno la scelta del colore azzurro é casuale, anzi assimila il partito
personale a una specie di “nazionale” politica a suo uso e consumo.
Ci sono due dichiarazioni che dicono tutto sul rapporto tra Berlusconi e il Milan. La prima di
dieci anni fa:”Il Milan é un’organizzazione che dà vita a un’idea.” Roba da Karl Marx del
pallone.
La seconda, da processo di Aldo Biscardi, di un paio di campionati fa:”Ho insegnato al Milan
come si gioca al calcio.” Sublime modestia in un Paese come il nostro di 60 milioni di tecnici.
Resta un fatto sacrosanto. Il Milan ha tradizione di buon football, prima di Berlusconi e
durante. Ha avuto come simbolo il Gianni Rivera del “tocco in più”; ha vinto la sua prima
coppa europea con i gol di un centravanti da cineteca come Josè Altafini. Ha coniato gli schemi
all’ olandese di Sacchi e quelli invasivi di Capello. Lascia pure che ironizzino adesso sul
cacofonico Kakà, ma il ventenne brasiliano altro non rappresenta che una lunga, interminabile
sequenza di campioni in rosso e nero, e una scuola della quale fa parte lo stesso Ancelotti,
l’allenatore gentile.
Ha ragione mio figlio, il dramma dell’Inter é di avere questo Milan faccia a faccia, in cui
specchiarsi ogni giorno. Neanche la Roma di Totti può distrarsi.