2004 febbraio 29 Montezemolo

2004 febbraio 29 – Montezemolo

Le prime due domande sono nude e crude. Se con Nicola Tognana abbia perso anche il Nordest e se
il Veneto conterà meno.
La risposta é due volte no, perché la sua candidatura alla presidenza nazionale di Confindustria non
é mai stata davvero di bandiera, nemmeno in Veneto. Imprenditore di Treviso con tegole e
ceramiche, 52 anni cioè cinque in meno di Luca Cordero di Montezemolo, Tognana ha fatto tutto da
solo: si é candidato, si é battuto, si é ritirato. Era un ottimo candidato debole.
A Nordest non poteva contare su Bolzano, con l’eccezione degli edili, né su Trento. Quando da
Pordenone il suo antagonista Montezemolo si presentò al Friuli-Venezia Giulia, le reazioni furono
testualmente di “entusiasmo”. E nello stesso Veneto sarebbe mancato a Tognana il sostegno finale
di associazioni come la potente Vicenza e l’eccentrica Venezia, senza trascurare gli emblematici no
a titolo personale di Luciano Benetton, di Alessandro Riello, presidente della poderosa Assindustria
Verona, e di Mario Carraro, ex presidente dei confindustriali veneti.
La candidatura di Tognana si é rivelata via via personale più che territoriale. Spinto da una franca e
coerente ambizione, per quattro anni ha giocato la sua tacita partita tutta all’interno di
Confindustria, da vicepresidente vicario. Non poteva fare nient’altro, ma era la tattica sbagliata nel
momento sbagliato. Non a caso ha cercato la base trovando soltanto il dieci per cento d’essa.
Tognana ha navigato a lungo a quota periscopica, non dando quasi mai nell’occhio; Montezemolo a
vele spiegate, per farsi avvistare quanto più poteva. Montezemolo ha colpito subito l’immaginario
d’impresa. A Tognana non ha aggiunto nulla, anzi, la deludente lobby del presidente uscente
D’Amato, ostile a una Confindustria affidata a un manager.
Il manager Montezemolo ha vinto nello stesso giorno in cui ha accettato di candidarsi, un mese fa.
Gli é bastato un solo mese di campagna elettorale, dato che Confindustria aveva urgenza di un
leader per chiamata, quasi plebiscitario, di massima visibilità. Uno esattamente come lui, sulla
cresta dell’onda in un Paese a corto di fiducia, senza porsi minimamente la questione se fosse
preferibile un buon proprietario d’azienda come Tognana o un bravo manager come Montezemolo.
Il ceto imprenditoriale si é dimostrato laico, senza tabù. E, forse, consapevole che nella fase del
cambio generazionale, della truffaldina saga familiare di Parmalat , del disastro pubblico di Alitalia,
di imprenditori in manette e delle prime cinquanta Spa di calcio sotto inchiesta, anche le vecchie
classiche categorie imprenditoriali e/o manageriali sono in corso di revisione.
Poco accade oggi “in” Confindustria, tanto meno l’elezione del suo presidente da qui al 2008, anni
a trazione anteriore globale. Ora il più accade “fuori” di Confindustria, organizzazione alla quale si
chiede di avere una struttura burocratica dimezzata e una raddoppiata capacità di mettere l’impresa
al centro della società. Non servirebbe altro.
Il capitalismo italiano si ritrova in deficit di rappresentanza, di ruolo e persino di apparenza. Da qui
la scelta di un manager di successo, di multiple esperienze e di immediato impatto internazionale
come Montezemolo, 110 e lode in giurisprudenza, di casa a New York e già presidente degli
industriali di Modena.
Tognana non era tagliato per questa congiuntura dell’economia. Ha puntato molto sull’esperienza
riformatrice dello Statuto interno confindustriale proprio nel momento in cui, nel bene e nel male,
gli imprenditori sono invece precettati in prima linea nel mondo, dal Sistema-Italia a Bruxelles,
dalla Cina alle Isole Cayman, dall’Euro alla de-localizzazione, dalle banche dei Bond
all’avventurismo finanziario dei grandi gruppi, dalla concorrenza tra prodotti alla competizione tra
politiche industriali. E ciò vale per la Fiat come per l’ultimo artigiano.
La metafora sarà ingenua oltre che scontatissima, ma Confindustria cercava una Ferrari
imprenditoriale per darsi un’accelerata. Tra Tognana e Montezemolo ha optato a occhi chiusi per il
secondo, il manager del Made in Italy con le rosse di Maranello, dunque l’immagine più in
mondovisione del lavoro italiano, uno spot nazional-popolare nel quale si sintetizzano gli export di
milioni di imprese medie, piccole e magari familiari che nonostante tutto tengono duro e stanno
reagendo con una forza impressionante. Altro che “declino”.

Nel dopoguerra, ai tempi della presidenza di Angelo Costa, Confindustria pensava di poter fare da
sola prendendo alla lettera Adamo Smith, l’economista scozzese padre del liberalismo, secondo il
quale i politici erano “improduttivi”, dunque superflui. Oggi Confindustria, pur apolitica, deve fare
pressing tanto sulla politica per fermare la crisi di classe dirigente quanto sull’intero sindacato per
ridare reputazione sociale al capitalismo.
A differenza di Francia e Germania, la Confindustria italiana raggruppa soltanto 113.000 mila
imprese – erano 76.251 nel 147 – con circa 4.200.000 addetti. Quando Luca Cordero di
Montezemolo promette che tuttavia sarà “la casa di tutta la classe imprenditoriale”, credo non faccia
retorica; piuttosto, coglie al volo un limite strutturale, una debolezza su cui lavorare da manager.
Per adesso é il Pole position; ma conterà il traguardo.