2004 giugno 27 Nordest al capolinea
2004 giugno 27 – Nordest al capolinea: il problema non c’è
Il tam tam imperversa da mesi: il Nordest sarebbe già crepato in giovane età, finito per sempre, morto e
sepolto, tutto da rifare. L’area non avrebbe più niente da dire su piazza se non preparare il de profundis
del capitalismo familiare, cioè la scomparsa del capitale sociale di un’intera generazione di pionieri. In
base al dominante catastrofismo e al supposto tramonto del benessere, qui nessuno avrebbe più scampo
né un euro di futuro. Questione di tempo e un simbolico capannone ospiterebbe la firma del fallimento
collettivo, la Caporetto del capitalismo senza capitali e senza capitalisti approdato in 20 anni ai “schèi”
con il lavoro per tutti e con l’impresa nel sangue. Il frettoloso necrologio di questo Nordest dilaga quasi
compiaciuto, come se soprattutto il presunto funerale del cosiddetto “Piccolo è bello” rappresentasse
secondo taluni una liberazione dal vecchio Far West imprenditoriale. In parole povere, dalla rozza
moltitudine di imprenditori/operai senza cassaforte di famiglia e senza erre moscia ma ben forniti degli
spiriti animali per mettersi con niente in proprio. Da mesi, studi e assemblee, fondazioni, cenacoli,
categorie e banche, censimenti, intellettuali, politici, amministratori e pendolari del vento che di volta
in volta tira, non si limitano perciò a denunciare i punti deboli del Nordest attuale in un’Europa tutta
con il sedere per terra, o a indicare i settori in affanno di fronte all’arrembaggio liberista di un
grandioso Paese come la Cina, oppure ad addebitare anche alla vecchia ultradecennale paralisi
burocratica delle infrastrutture il vano appello a “fare sistema” che circola da una vita in quest’area
come un acaro tra le lenzuola o uno starnuto di stagione nell’aria. Nulla di tutto questo. No. La funerea
libidine consiste nel trascurare a Nordest il peso della congiuntura internazionale, delle crisi provocate
nel mondo dalla nuova rivoluzione industriale, dei rischi dell’impresa spinta da un lato (vedi
economisti) a delocalizzare l’azienda dovunque, dall’altro (vedi forze sociali) a investire ancora sul
territorio. Secondo tale rappresentazione del Nordest, non si tratta di congiuntura e/o di frenata da
impatto globale. Morti sarebbero invece lo stesso “modello”, un intero sistema, il Nordest in quanto
tale, passato e presente di un’area ben precisa, come se ogni segno di difficoltà di oggi comprovasse
finalmente che 30/40 anni di crescita sarebbero stati un bluff a partire dal Veneto, un “miracolo”
retorico, uno sviluppo imperioso ma nano e a termine. Se non che, a mio minoritario parere, proprio
questa perentoria dichiarazione di morte presunta riduce un fenomeno serio come il Nordest a un
improbabile fumetto ideologico. Senza contare che il più prestigioso economista americano, John K.
Galbraith, insiste a ricordare a tutti “l’impossibilità di prevedere lo svolgimento futuro dell’economia”.
In realtà, il Nordest è tutt’altro che morto anche perché il suo “modello” statico nemmeno esiste. Ha
semmai inseguito il mercato, i cambi e la competizione così come si presentavano, occupando anche
produzioni ripudiate dal resto d’Europa. Nonostante tutto, il ricercatore Bruno Anastasia ha fatto l’altro
ieri presente che il Nordest genera tutt’oggi più assunti che licenziati. Grazie a Dio il Nordest non
poteva strutturarsi sul modello del “grande” capitalismo italiano, cattivo maestro per tutti. Al contrario i
distretti vengono proprio in queste ore invocati per l’area romana da Storace, presidente di centrodestra
del Lazio, e da Veltroni, sindaco di centrosinistra della capitale. Nonostante la brutalità sociale di certa
delocalizzazione, il mai morto Nordest è in pieno cambio generazionale, in inedita transizione dalla
famiglia ai manager e con più di mezzo milione di popolazione straniera sul territorio. Mostra
innumerevoli punti di forza, di tenuta e di espansione oltre che di diffusa spinta all’innovazione anche
se, come raccomanda l’industriale meccanico Mario Carraro, c’è bisogno di più e di miglior scuola. Pur
di non subire passivamente la Cina, il Nordest va a cercarla. Se qui perde la competizione in basso,
tenta in alto di andarla a vincere là. La vita globale si è fatta selettiva al massimo sia nella competizione
tradizionale (manifatturiera) sia in quella avanzata (tecnologica), ma Unioncamere del Veneto dimostra
che si investe troppo poco. È la fase più complicata. Il Nordest sa meglio dei suoi impazienti becchini
di dover favorire più di ieri il passaggio dell’impresa da “piccola” a “media”. Non dimentica tuttavia
che la piccola impresa fa ancora società, casa, famiglia, bottega, ammortizzatore sociale, campanile del
lavoro, banca territoriale, rete diffusa assieme al non profit, alla buona sanità pubblica, al solidarismo
cattolico, al sindacato pragmatico, al volontariato, alla qualità della vita decentrata. Non ha bisogno di
una nuova identità né di un nuovo modello. Il Nordest ha urgenza – imprenditoriale e politica – di
combinare l’aggressività dei vecchi pionieri con la conoscenza delle ultime leve. Il nuovo imprenditore
non starà come una volta 18 ore al giorno in fabbrica ma deve occuparsi 24 ore su 24 del mondo. Il
resto verrà, senza esequie né medie né piccole.
27 giugno 2004