2004 settembre 4 Il disincanto del Nordest
2004 settembre 4 – Il disincanto del Nordest: «Federalismo, avanti piano»
Venezia. Molto è cambiato a Nordest per non dare nell’occhio. Fino all’altro ieri certe assemblee
annuali dei confindustriali qui sembravano assemblee costituenti attorno a un pugno di parole d’ordine.
Cambiare, cambiare e ancora cambiare, modernizzazione a trazione anteriore, territorio come
contropotere, economia contro burocrazia, federalismo. Il federalismo rappresentava la parola omnibus
del Nordest deciso a innovare anche le istituzioni. Così il capitalismo a grappolo avrebbe brevettato la
formula schei e riforme. «I denari sono belli quando cantano» avverte una pagina di Giovanni Comisso,
e il Nordest li sentiva tali e quali cantando lo Stato leggero, dunque meno Stato, stop all’ingorgo di
potere al centro. Nel federalismo l’impresa media e piccola intravedeva il prolungamento
dell’economia con altri mezzi: una scommessa italiana, tutt’altro rispetto alle sirene separatiste padane
e allo stesso localismo. L’ambizione più elitaria aspirava a nobilitare la questione settentrionale in
nazionale. Un luogo senza centro come il Nordest si sentiva tagliato su misura per investire nel
decentramento su vasta scala. Ma l’equivoco del federalismo sta tutto qua secondo Pietro Marzotto, per
diciotto anni nel governo di Confindustria. Proprio nella confusione tra decentramento e federalismo,
fra sacrosanta domanda di efficienza e irrealistica fuga in avanti. «Giustamente – ricapitola il leader
della multinazionale di Valdagno – il Nordest ha sempre desiderato il decentramento per dare alla
macchina pubblica maggiore rendimento, dato che a ogni passo verificava che le cose funzionano in
Comune e in Regione meglio che a livello statale. Solo che non è una caratteristica degli industriali del
Nordest approfondire le cose a cominciare dai costi, tanto che il bisogno autentico di efficienza del
sistema ha finito per essere frainteso con un papocchio di federalismo». Vale a dire verboso, alla
rinfusa, di sinistra esattamente come di destra, che ha tagliato fuori proprio «i favorevoli a un buon
federalismo». Ora Marzotto fiuta non per nulla aria di «disastro». «La riforma del centrodestra –
prevede il conte – peggiorerà il male già fatto dalla pessima riforma costituzionale attuata dal
centrosinistra. Assieme alle deleghe di competenze non ho mai visto un solo trasferimento di personale
sul territorio! Mai. Con l’inamovibilità di fatto dei dipendenti pubblici, altro che efficienza e vantaggi
per i cittadini, si ottiene solo il costo della duplicazione». Pietro Marzotto va giù schietto, alla sua
maniera, con quanti trascurarono sul nascere un rischio a lui sembrato sempre palese. «Di tanta
faciloneria – conclude – il Nordest dovrebbe vergognarsi». Da neopresidente di Confindustria Luca
Cordero di Montezemelo ha raffreddato il federalismo spostandolo nel freezer istituzionale. Una virata
non da poco il suo «andiamoci piano», pur chiarendo, su per giù nella linea di Marzotto, che «il
federalismo è una grande idea ma bisogna calcolarne il prezzo». Per il Nordest una mezza rivoluzione
che archivia le pulsioni della base imprenditoriale dosate per anni da Nicola Tognana, il trevigiano vice
di Antonio D’Amato a viale Astronomia. «Il Veneto era tutto per Tognana, poi tutto per
Montezemolo…», sorride Mario Carraro ex presidente degli industriali veneti, alla testa di un gruppo
metalmeccanico da quattrocento milioni di euro con impianti in sei Paesi. La verità è che
Montezemolo, oltre al consenso personale, ha svelato il latente disincanto del Nordest stretto fra
aspettative (riformiste) ed emergenze (economiche). Volenti o nolenti, ora fanno testo nuove gerarchie
di interessi globali. Montezemolo ne ha in fondo preso atto a voce alta e con un sospiro di sollievo,
questo sì. A Maranello diffidano anche delle utopie più benpensanti. Giovanni Fantoni, milleduecento
dipendenti in Friuli e Slovenia che producono mobili d’ufficio e pannelli per trecento milioni di euro,
racconta bene il riallineamento del Nordest. «Ha ragione Montezemolo – dichiara Fantoni presidente
degli industriali di Udine – quando immagina priorità a piccole dosi. Purtroppo la mia esperienza
dimostra che in questi anni le riforme sono state spesso traumatiche in senso negativo. Senza
pianificazione, le nuove competenze a Regioni e Comuni hanno complicato le procedure invece di
semplificarle! Io non faccio ideologia federalista; sto ai fatti e questi provano che la burocrazia è
aumentata, spesso addirittura più costosa». Con i piedi per terra del friulano si scandalizza per il
travisamento non dico dell’ipotetico federalismo ma persino del più collaudato decentramento. Nel
Nordest privo di forti gruppi di pressione, di robuste lobby, di grandi gruppi industriali, la burocrazia
viene percepita come il massimo dell’intralcio da oltre mezzo milione di aziende. Su tale zoccolo duro
conta non a caso lo scampolo di devolution che Umberto Bossi prese in prestito dalla Scozia e che per
la Lega Nord vale oramai come residuale «dio Po». Un totem identitario, prendere o lasciare, che lo
stesso Gianfranco Fini consiglia al centrodestra di non lasciar «tirare per le lunghe». Ciò non toglie che
il federalismo sia uscito o quasi dai radar del Nordest. Con Alessandro Riello a Verona e con Paolo
Scaroni a Venezia, il vicentino Massimo Calearo ha fatto campagna aperta per Montezemolo e ora
interpreta il momento senza mezze frasi: «A forza di protestare, Veneto e Nordest hanno visto
ghettizzare il loro modello di economia, perfino l’idea di laboratorio. E il federalismo all’italiana si è
rivelato agli occhi della gente come un federalismo di costo». Da presidente della poderosa
associazione di Vicenza, aggiunge: «È poi cambiato il calendario dei problemi, che sono sempre più
nazionali e oltre». I federalismi alla spicciolata si ritrovano a piè di pagina, e meritatamente lascia
intendere Calearo, produttore di antenne e di sistemi di comunicazione.
Come sempre il Nordest si autorappresenta a molte facce, il contrario di un blocco di granito, basta
ascoltare Luigi Rossi Luciani, il padovano alla testa degli industriali veneti fino al 2005. Dalla sua
azienda di componenti elettronici, ribadisce tutt’altra linea. «Trovo miope dimenticare che per noi il
federalismo equivale a modernizzazione, indispensabile come il pane in un Paese ministeriale. Io sono
sempre stato federalista solo perché lo Stato centrale non funziona, e allo stesso modo guardo ad
esempio all’immigrazione. Lo sa che in Veneto gli stranieri hanno superato il cinquanta per cento degli
occupati nell’edilizia? La nuova squadra confindustriale veneta deve, a mio sommesso parere,
guardarsi dalla tentazione di stare più vicina a Montezemolo che al territorio». Rientrato da un viaggio
negli Stati Uniti, Mario Carraro quasi si arrabbia per il basso livello della politica italiana nel discutere
di federalismo. Lui che rinunciò al ministero dell’Industria non soffre in materia complessi di sorta. «Il
federalismo – sottolinea forte – non consiste in un centro che passa qualcosa alla periferia ma nella
periferia che lascia qualcosa al centro. In America sono le città a occuparsi della scuola mentre la Casa
Bianca si occupa dei poveri della scuola perché l’aspetto sociale è il solo nei poteri federali. I nostri
federalismi di destra e di sinistra sono aborti, compromessi che non vanno bene né in Sicilia né a
Nordest». È la prova. Il federalismo confindustriale dell’«andiamoci piano» ha reso prudente anche il
Nordest, ma non fino al punto di evaporare come uno slogan di moda. Resta tuttora un’aura ambientale.
Scende nel calendario, non ne esce per sempre.
4 settembre 2004