1990 marzo 21 La vera colpa di Sica

1990 marzo 21 – La vera colpa di Sica

Era la primavera del 1982 quando il presidente del Consiglio, Spadolini,
nominò prefetto di Palermo il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla
Chiesa. «La mafia in Sicilia ha inquinato quasi tutti i partiti e io dissi al
generale di sfidare chiunque», spiegò più tardi Spadolini durante il lungo
interrogatorio reso ai giudici del maxi-processo a Palermo per l’assassinio di
Dalla Chiesa.
La burocrazia, i corpi separati, l’estraneità dello Stato avevano prestissimo fatto
intendere a Dalla Chiesa la solitudine della sfida. Chiedeva che gli fossero
riconosciuti poteri di coordinamento, non poteri eccezionali: più attenta e svelta
dello Stato, la mafia capì che quel generale aveva idee, coraggio, ambizioni. Lo
fece fuori subito, per precauzione.
Lo Stato inventò la figura dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, cui
vennero attribuiti i poteri che Dalla Chiesa non aveva. Funzionario di carriera,
Emanuele De Francesco i poteri non li esercitò o li usò senza lasciar traccia: se
aveva i poteri, non aveva i mezzi, né la mentalità, né il fisico del ruolo. Era
l’uomo sbagliato al posto sbagliato; ad ogni buon conto già i titoli dei giornali
del 1983 avvertivano: «Polemica sui poteri del commissario anti-mafia». De
Francesco sparì nell’anonimato degli uffici romani, lontano dalla trincea di
Palermo.
Un generale ammazzato, un innocuo burocrate, oggi un magistrato. Quando,
due anni fa, il Consiglio dei ministri concesse poteri straordinari all’Alto
Commissario Domenico Sica i giudizi furono storici: «É la dimostrazione della
volontà dello Stato di lottare contro la mafia»; oppure: «Bisognava eliminare lo
spaventoso scoordinamento tra le forze in campo contro la mafia». Parole,
menzogne.
Ora stanno smantellando Sica, il suo ruolo, la sua figura. La criminalità
organizzata e la droga sono più devastanti del terrorismo, ma l’affarismo
imperante e uno Stato senza credito le sta normalizzando; l’anti-Stato del
crimine rappresenta la prima emergenza del nostro Paese, ma le più torbide
manovre e i più strumentali formalismi vengono usati per screditare chi sta in
prima linea, a rischiare la pelle dall’alba al tramonto, per tutti i santi giorni della
vita.
Contro ogni evidenza, Domenico Sica non vuol ammettere che la mafia ha già
vinto: lo dovevano incriminare non per abuso di potere ma per illusione

aggravata.