1990 marzo 25 Il grande stress

terzi

conto

(Pci, Psdi, Verdi,

1990 marzo 25 – Il grande stress

Verso il 6 maggio
Nessun partito è uguale a prima. E non basta più la mediazione

Quella di élite si chiama sommersa. L’altra, la sinistra ufficiale, può essere
costituente (per Occhetto), ancora generica (per Craxi), presto alternativa (per
Cariglia). Un magma bollente, che si muove in tutte le direzioni, ma lentamente,
come fosse un semifreddo.
A quaranta giorni da un voto amministrativo i cui sintomi sono tutti politici, l’Italia
è diventata un cantiere programmatico, a cominciare appunto dalla sinistra. Dopo
l’implosione del comunismo, la nuova bussola sarà il socialismo liberale. Altro che
strappo; per tanta parte della sinistra italiana si tratta di ricominciare da capo,
azzerando il passato per ritrovarsi oltre le storiche fratture.
Tutti i partiti sono sotto stress. Ambientalista, socializzatore, anti-capitalista, il Msi
di Rauti si è dato una scrollata non da poco rispetto alla pietrificata tradizione di
protesta e di qualunquismo piccolo borghese. Paragonato a quello di Almirante,
sembra a tratti un altro partito.
Fra i laico, i ruoli sono per certi versi paradossali. I radicali fanno gli animatori del
movimentismo per
liste
antipartitocratiche). I liberali rischiano la terminale perdita d’identità non per
debolezza di messaggio, ma per l’esatto contrario: nel momento magico del
«socialismo
liberale», del progressismo «liberal», dell’Europa «liberal-
democratica», gran parte della loro cultura è stata espropriata per assimilazione.
L’espandersi dei valori liberali penalizza il loro partito-sentinella, troppo piccolo
per un successo così grande.
In condizioni del tutto diverse, un fenomeno analogo riguarda un po’ anche i Verdi.
Oltre che amministrare un largo consenso, i Verdi hanno spinto all’ecologia tutti i
partiti, da Democrazia proletaria al Movimento sociale. Perciò il dilemma dei Verdi
si può così riassumere: o trasformarsi progressivamente in un partito come gli altri,
sia pure con primogenitura ambientalista, oppure specializzarsi sempre di più,
condensando la loro funzione nella sola politica ecologica. Cioè su una questione
pre-politica, che segna il nostro tempo e dominerà il futuro.
Lo stress da cambiamento non risparmia nessuno. La compostezza istituzionale del
Pri rischia molto quando, sul problema dell’immigrazione extracomunitaria, La
Malfa si trova oggettivamente sulle stesse posizioni delle Lighe, tanto vituperate da
Spadolini. Per reagire al declino elettorale, anche i laici esplorano terreni nuovi,
forzando i toni senza andar troppo per il sottile: sugli immigrati, i repubblicani
hanno molte più ragioni che torti, ma lasciano trasparire anche un calcolo emotivo,
in vista del voto del 6 maggio.
Fosse soltanto storica la prospettiva, la Dc dovrebbe limitarsi a guardare, sfregarsi
le mani, raccogliere i frutti maturi di scelte che nel dopoguerra non sbagliò mai, per
prime in politica estera. Il 18 aprile 1948, quando la Dc di De Gasperi e di Pio XII
risparmiò all’Italia la Repubblica popolare socialcomunista, è in fondo l’unica data
oggi ferma e provvidenziale nella generale rifondazione della politica italiana.
«Meno male che non vincemmo noi!», ha dichiarato recentemente Massimo

referendum,

Cacciari scandalizzando stalinisti, opportunisti, zoccolo duro del Pci proprio perché
diceva nient’altro che la verità, da post-comunista onesto e razionale.
E tuttavia la Dc è sempre stata una confederazione: di posizioni cattoliche, di
gruppi di pressione, di strati popolari, di correnti moderate, di avanguardie
sindacali, di anti-comunisti allo stato puro, di voti ad essa concessi per evitare il
peggio, «turandosi il naso» secondo la definizione di Indro Montanelli. Oggi questa
Dc celebra meritatamente il suo 18 aprile, ma fa la festa con il morto in casa: senza
comunismo, la confederazione democristiana sente più forti che mai le spinte
centrifughe, di potere, di corrente, di lobbies. E, anche, di sincere divergenze su una
società che cambia pelle, che butta a mare gli schieramenti e si confronta sempre
più sui programmi, dietro i quali fanno la coda gli interessi, le pressioni, le istanze
di un’opinione pubblica a sua volta insoddisfatta e polverizzata. É finita la stagione
d’oro dei franchi tiratori; oggi, vedi il voto in Senato per la legge sull’informazione,
ci si spacca nella Dc a viso aperto, senza compromessi, senza il senso di colpa di
aver «fatto il gioco» dei comunisti.
Lo stress dei partiti, la frammentazione, la fuga nell’autonomia, stanno mettendo a
durissima prova la vecchia arte della mediazione. La media ponderata dei distinguo
non consente più di governare; la crescente complessità indurrà fatalmente a
passare dalla mediazione debole alle sintesi forti.
Sotto la spinta della società civile, nuovi valori si aprono faticosamente il varco a
dispetto dello sfruttamento intensivo dello Stato da parte del ceto politico e degli
affaristi privati. Quando si rende illegale ogni uso di droga o si ostacolano i
monopoli dell’informazione; quando si professionalizza la sanità o si strappa
l’Università alla burocrazia; quando si lavora per liberare i giudici da ogni vincolo
o si promuove sull’immigrazione l’equilibrio tra solidarietà e realismo, in tutti
questi casi oggi drammaticamente sul tappeto sono in gioco valori oltre che potere
e maggioranze. Lo stress dei partiti non è una buona ragione per lasciarli marcire; i
Governi sono condannati a governare.