Vincenzo La Mole – Il bell’Antonio e l’avvocato (1976)

Il bell’Antonio e l’avvocato

Giorgio Lago giornalista nacque assolutamente per caso. Erano gli Anni Sessanta in cui,
assolutamente per caso, poteva nascere tutto. Il Paese si scopriva la vocazione europeistica; Fanfani
cambiava e rivoltava la sua ideologia a seconda delle occasioni fluttuanti del potere; Moro era
abbacchiato ma ogni tanto perfino sorrideva. Ancora non si erano scoperte le doti taumaturgiche di
Berlinguer e l’Italia viveva senza sospettare che un domani non troppo lontano le cose sarebbero
cambiate da così a cosà.
I giornalisti sportivi avevano, in quegli anni, un padre putativo in Brera vulcano di allitterazioni
tecniche e di dialetto pavese; e c’era anche un giornalismo di punti e virgolette, però non soltanto
quelli, anche una certa fragranza come ironia e meraviglia. C’era Gianni E. Reif che scriveva con
uno stile estemporaneo e per molti versi paradossale. Sapeva scrivere di calcio senza prenderlo
troppo sul serio e intanto stravinceva un certo Helenio Herrera con due occhi da topo di campagna e
il ricordo di tanta fame arretrata.
Com’era il giornalismo sportivo negli anni Sessanta? C’era Brera del quale veniva riconosciuta la
grandezza e poi c’erano i napoletani. Il più svelto di essi era Ghirelli, la cui Storia del calcio italiano
rimane alla nostra letteratura e il più sornione e gattesco era Palumbo che ogni tanto scriveva pezzi
deamicisiani con l’aria di voler rivalutare i « pezzi da novanta » degli anni passati.
Nell’estate del 1963 Giorgio Lago, a Padova per gli esami di laurea in legge, fece l’incontro della
sua vita. Con Gianni E. Reif, appunto, che, secondo il suo stile, gli offrì di collaborare al suo
giornale.
« Vieni mi disse — ricorda Lago — ti prendo in prova per tre mesi con me. Proverai a spese tue
naturalmente. Io ti posso offrire soltanto l’occasione. Se ci sai fare, ci guadagnerai soltanto tu.
Ti
aspetto il primo settembre. Andai su a Milano dal primo settembre, si disputava il campionato del
mondo di ciclismo a Herlens in Belgio, e Reif mi disse: scrivi un servizio datato Herlens con firma
falsa. Lo scrissi e fui così buttato subito nel gran mondo dello sport, dove non si può sgarrare,
dove si deve essere svelti, furbi, informati. Dove ti fai rispettare soltanto se ti fai temere ».
Questo Giorgio Lago, bel giovane, un po’ dandy, è del ’37.
Suo padre, segretario comunale (oggi in pensione) e sua madre maestra. Un ragazzo molto fine, che
sta sempre al suo posto, che parla con dolcezza. Però in fondo a tutto uno molto sognatore,
bisognoso di amicizia, lettore accanito di giornali. Li leggeva tutti, i giornalisti noti, senza
immaginarsi ancora che un giorno avrebbe potuto emularli. E poi perché fare proprio il giornalista
sportivo? Che mestiere è questo? Ancora oggi se lo chiede con meraviglia.
« Alla fine di quel settembre del 1963, Gianni E. Reif mi diede ottantamila lire. Il mio primo
stipendio. Non ti dico la soddisfazione per quei soldi guadagnati scrivendo. Decisi in quel
momento, mentre avevo quei soldi in mano, che non avrei più cambiato professione ».
Nel 1966 i Campionati mondiali di calcio si disputarono in Inghilterra e Gianni E. Reif, direttore
del settimanale « Supersport » si portò dietro il giovane Lago.
L’Inghilterra è la terra del calcio anche se le mode di oggi sembrano contraddirci: stadi
monumentali e risonanti su prati verdissimi in modo pazzesco ed allucinante lo confermano.
Gli allenatori non furono mai demiurghi ma marcantoni pieni di whisky con voce gutturale fessa e mani
tremolanti.
Però sberle tremende ad allenare i portieri. Nel girone di Sunderland, l’Italia è fissa a Durham.
E Lago fece la conoscenza di Fabbri, detto Fabbrino, e delle sue manie. Egli portava da Milano la
passione per l’Inter, da tifoso radicale dell’Inter, attaccato alla squadra « Bauscia » per eccellenza.
Così cominciò la carriera vera e propria di questo stilizzato « forzato » della portatile.
« Dettai il più lungo pezzo dall’Inghilterra per un giornale italiano dopo la sconfitta con la Corea.
Pensa, ventidue cartelle! E lì ebbi la fortuna di imbattermi nel secondo giornalista della mia vita
dopo Reif: un galantuomo ed un gentiluomo che definirei l’antesignano dell’umanità applicata alla
tecnica, Giglio Panza ti dico… ».
Giorgio Lago è unico o quasi. Dalla maggior parte dei suoi colleghi: lui è diverso e scrive
informato e aggraziato. Il suo commento al campionato è qualcosa di araldico: bisogna possedere
molta giovinezza (ed una natura stendhaliana, cioè un amore profondo per l’Italia terra della Magna
Grecia), per poter risolvere come fa Giorgio i problemi del servizio domenicale.
Egli lo scrive, pilucca gli aggettivi, pertinente e competente, assolve al compito così da
dimostrarsi nettamente al di sopra della media e da oscurare il commento al campionato che intanto
ha ordinato al suo vecchio idolo Helenio Herrera, che se lo fa scrivere dalla moglie Flora.
Giorgio Lago vive a Castelfranco, non a Venezia e ogni giorno compie cento chilometri in auto
per agganciarsi alla Laguna. Lavorava per « Tuttosport » quando fu chiamato al Gazzettino. Ci andò
con tutto il suo entusiasmo giovane e lindo, la sua fermezza la sua passione per l’Italia di una volta.
Fa piacere al cuore sentirlo parlare cosi: « Io sono grato a mio padre, oggi in pensione, per la
lezione di onestà e per gli studi che mi ha fatto fare. Io amo il latino, il greco, la filosofia.
Gli studi classici ti danno quella misura dell’uomo che non ti fa sbandare ».
Giorgio Lago ha due figli. Devi essere molto frettoloso o molto superficiale (per Oscar Wilde la
superficialità è il massimo difetto dell’uomo) per non accorgerti che è diverso dai giornalisti della
generazione precedente. Avendo particolare propensione al cosiddetto fatto tecnico, costoro si
presentavano la domenica pomeriggio sugli spalti e scrivevano il loro pezzo meno quello che
avresti voluto trovare. Non esiste più, grazie a dio, il giornalismo tecnico calcistico di Leone
Boccali e Mario Zappa, e pochissimi vecchi leoni resistono all’ondata rinnovatrice dei giovani leoni
quarantenni o giù di lì. In questa Italietta, il calcio è stato considerato fino a dieci anni fa come il
divertimento della buona gente ed i giornalisti sportivi sottospecie del giornalismo; il giornalismo
sportivo, invece, sta rinnovando lo stesso giornalismo politico: il giornalista sportivo scrive chiaro e
umano, si fa capire, non si è robotizzato, non è vittima delle allitterazioni tecniche, non va avanti a
formulette, non ha un linguaggio per iniziati. Il giornalista sportivo, nella misura del proprio istinto,
racconta il calcio e lo sport, da giornalista.

di Vincenzo La Mole