Francesco Jori – Quarant’anni di giornalismo (2005)
Quarant’anni di giornalismo
«Ho avuto anch’io il mio Sessantotto», scrive giovedì 21 giugno 1984 aprendo il suo saluto ai lettori da direttore del «Gazzettino»: il ventunesimo dopo il fondatore, Giampietro Talamini. È in quel ‘68, che Giorgio Lago viene assunto nel giornale in cui vivrà per quasi trent’anni e che guiderà per dodici, il secondo per durata dopo Talamini stesso; un giornale, spiega nell’editoriale, «che fin da ragazzo ho identificato con le Tre Venezie».
È e si sente veneto, ma dentro quel Veneto tiene a sottolineare la sua impronta di «razzapiave», anzi della riva sinistra del fiume, «perché c’è una bella differenza con la destra».
Ma senza fratture: rivendica con orgoglio le radici e l’identità, detesta i «provincialismi» che contrappongono le differenze e incrementano i pregiudizi». Stabilisce una distanza netta tra appartenenza e chiusura perché è egli stesso, e si sente, «geograficamente un intreccio di tutto il Veneto».
Lui nasce a Vazzola, a un tiro di schioppo da Conegliano, 1’1 settembre del ’37; ma sua madre è bellunese, suo padre padovano. Studia a Treviso, al liceo Canova; poi a Padova, all’università (Giurisprudenza).
Vive a Castelfranco ininterrottamente dal ’56, salvo una parentesi milanese dal ’63 al ’68. Come giornalista sportivo, batte a tappeto le città e i paesi del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Come direttore, ne vive tutte le angolazioni e le pulsioni; sul e col «Gazzettino», le Tre Venezie di Talamini diventano il Nordest di Lago.
Ma giornalista, e giornalista di razza, diventa fuori, a Milano. Da ragazzo, al liceo, ha assorbito il liberalismo di Gobetti e Calamandrei, di Croce e di Einaudi, «scoprendo la politica con un professore marxista che ci ha abituati alla dialettica». Ma anche il filone cattolico del personalismo di Maritain, «perché io sono un laico ma ho sempre respirato, da mia madre e nel mio contesto culturale veneto, aria cristiana». Però nel lavoro si sente e diventa un milanese, «perché Milano mi ha sprovincializzato, mi ha trasmesso il senso della concorrenza, mi ha dato la più grande lezione giornalistica».
Nella capitale lombarda arriva nel ’63 al seguito di Gianni Reif, direttore di «Supersport»: lo ha conosciuto a Jesolo, «con un mio approccio un po’ guascone di sfida, come se io, che non avevo nessuna esperienza di giornalismo, mi sentissi pronto a entrare nel mestiere dalla porta principale». Atipico e un po’ matto qual è, Reif accetta la guasconata e gli affida subito un pezzo di trenta righe su una corsa ciclistica da seguire in Tv. Lago lo butta giù, il direttore lo pubblica con uno pseudonimo, «da quel momento mi fece fare una carriera molto rapida in cui ho saltato a più pari la gavetta». Guadagnandosi la stima e l’affetto dei grandi del giornalismo, a partire da Gianni Brera.
Nel suo Veneto torna cinque anni più tardi, dopo aver girato il mondo come inviato a raccontare Olimpiadi e mondiali, imprese e personaggi, accumulando un grande patrimonio culturale cosmopolita, come egli stesso sottolinea; perciò, il suo rientro nella terra d’origine lo vive come «un approdo a un rifugio dell’anima, non a un luogo di separatezza». Così, con la stessa intensità di scrittura e libertà di pensiero, continua per sedici anni il suo percorso di giornalista sportivo,
anzi di giornalista, tenendo a sottolineare di sentirsi un contadino, dalla testa ai piedi: «Amo la terra, mi piace stendermici sopra, sentire il profumo dell’erba e del fieno».
È un po’ il Dna del suo giornale da sempre, come egli stesso fa notare. quando la nuova proprietà lo sceglie come direttore: «Il Gazzettino ha una radice robusta, penetrante, che gli consente di essere uno degli elementi di identificazione della realtà triveneta». Per accettare il ruolo ha posto tre condizioni, cui ha ricevuto risposte positive: la voglia di investire sul giornale, l’ambizione a espanderne e potenziarne l’area diffusionale, l’intenzione di fare un giornale che si occupi di politica senza riferimenti partitici. Se il presidente Luigino Rossi e la proprietà hanno chiamato lui, del resto, è proprio perché gli riconoscono di non avere etichette, sponsor, padrini.
Questo taglio connoterà fino all’ultimo giorno la sua direzione, scontando conflitti pesanti anche sul piano umano: la linea politica del «Gazzettino» nasce dentro il «Gazzettino», frutto di un confronto quotidiano con i suoi giornalisti e i suoi lettori. In un suo editoriale del ’90 sottolinea quanto essenziale sia fare «un’informazione che si liberi dal cancro tutto italiano di voler instaurare a sua volta un potere tra i poteri per manovrare politica, finanza, istituzioni; logge di carta ma sempre logge: meno occulte ma altrettanto spregiudicate, perché prigioniere dell’identica libidine del potere e degli affari». La sua idea di giornale ruota attorno ad una stampa «che debba servire i governati non i governanti»; ma per riuscirci, «non deve governare: la libertà dei giornalisti è importante quanto la libertà dei cittadini dai giornalisti da Palazzo».
Questa convinzione la applica al giornale, facendone l’espressione di una realtà in fase di profonda quanto traumatica trasformazione dopo decenni di granitica stabilità. Dà voce alle inquietudini, ai malumori, alle tensioni, alle proteste; anche per questo lo accusano di leghismo e sfascismo. Ribatte: «Se voler capire la protesta significa essere leghista, allora lo sono totalmente; e non mi offendo di essere chiamato sfascista se contribuisco a rompere gli equilibri che strozzano una società». E a chi tende a sedersi sulle proprie sicurezze lancia l’esortazione a «mettersi in discussione di continuo, senza retorica: è una lezione socratica».
Lo fa mantenendo peraltro un affetto profondo per una terra di cui vive quotidianamente gli umori tagliandone trasversalmente tutti gli ambienti. Spesso si presenta al giornale con un appunto o un numero di telefono scritti frettolosamente su una salviettina da bar, spunto per un suggerimento raccolto dalla gente comune bevendo un cappuccino. Una realtà vissuta anche fisicamente: ogni giorno fa il pendolare tra la sua Castelfranco e Mestre; e la domenica la passa con la famiglia cui è attaccatissimo, la moglie Emina, i figli Francesco e Paolo, oppure con gli amici, «a chiacchierare, a fare risse politiche, in un mondo privato ma non chiuso e mai razzista», tiene a rimarcare. Condendo il tutto con un amore fanatico per i libri: perfino la sua automobile è in piccolo una libreria viaggiante, pronta ad entrare in funzione di fronte a un semaforo rosso.
un semaforo rosso.
Chiude col «Gazzettino» venerdì 7 giugno del ’96. Lo fa con convinzione ma anche con fati-
ca, come confessa nelle primissime righe dell’editoriale di congedo: «Scopro che cominciare è facile, difficile smettere». Pochi giorni prima suo padre, il suo amatissimo padre, ha lasciato ai figli un testamento spirituale, di cui Giorgio Lago cita una riga: «Non vi lascio sostanze, ma un patrimonio di onore». Partendo da lì, chiude così sulle pagine del «Gazzettino» le sue ultime battute di una lunga ed intensa stagione: «In questi dodici anni abbiamo provato a fare un giornale di giornalisti liberi, con onore». Il suo risultato più alto.
Ha ragione lui: difficile è smettere, smettere una lunga consuetudine di rapporti e di comune sentire. Smettere di vivere. Il giorno in cui morì Sandro Pertini aveva scritto: «Il suo tempo l’ha vissuto tutto, perché mai si è astenuto; ha scelto, senza ambiguità; ha pagato, senza pentimenti». Parole, e testimonianza, che si possono ripetere pari pari per Giorgio Lago, incluso il saluto finale che gli aveva dedicato: «Addio Presidente, lei il suo dovere l’ha fatto».
Addio Direttore, il tuo dovere l’hai fatto fino all’ultimo. E con onore.
di Francesco Jori