Maurizio Reffini – “Ciao, mio capo. Ti ricordi il nostro giornale”, Gazzettino (2005)

“Ciao, mio capo. Ti ricordi il nostro giornale”

Ciao mio Capo, mentre ti scrivo parlo a voce alta, così mi senti. La cosa è davvero strana, ci parlavamo a occhiate, bastava e ce n’era d’avanzo. E non abbiamo mai avuto bisogno di alzare la voce. Anche appena conosciuti – pensa, primi anni ’60! -, nel nostro ciondolare tra l’Assassino e le Colline Pistoiesi, nel budello di via Amedei, a parlare di calcio, ma sempre più spesso di vita, i nostri discorsi non sono mai scaturiti dagli schemi classici di conversazione, bastava un accenno, un particolare, una battuta… Poi, io mi perdevo tra i fumi e le carte del circolo, tu tra profumi e le pagine dell’ultimo libro. Fino al mattino dopo, un caffè al bar Milanese, una volata a Milanello o Appiano Gentile, e il ritorno in redazione in tempo per consentire, tu, al Tuttosport, a

Gian Piero Ginepro di correre all’ippodromo; io, per scrivere il pezzullino per l’ultima edizione del Lombardo e le “pezzesse” sul niente per le pagine del Milan – Inter. Chissà perché non abbiamo mai parlato di quei tempi, forse perché erano, e sono, e saranno ancora talmente vivi dentro di noi che non ci sarà bisogno di ricordarli, erano e sono la base, la certezza del nostro essere fratelli.

Quando lasciasti Milano, pur con in tasca il contratto del Giorno, di Italo Pietra, Angiolino Rozzoni, ma, soprattutto, Gianni Brera (“l’unico indiano Comanche che fa il giornalista in Italia” scrisse di te una volta il Giuann), ti detti del pazzo: “chi volta el cu a Milan, volta el cu al pan” ti dicevo. Ma le tue decisioni, quelle vere su situazioni vere, sono sempre state nette, al limite, a volte anche oltre, del cinismo.

Quando arrivai – o piombai, come amabilmente sosteneva Angelo Mazzotta – al Gazzettino, nel 1978, tu eri in ferie. Quando ci incontrammo la domanda fu semplice “che cosa ci fai qui?”. Come se ci fossimo lasciati la notte prima davanti al Circolo dell’Inter. Riprendeva un discorso mai interrotto, che proseguirà a lungo – diciotto anni fianco a fianco – e chissà per quanto tempo ancora. Nonostante tutto.

Hai vinto sempre. Hai vinto mondiali di calcio, olimpiadi, battaglie storiche nello sport e in politica, dentro al giornale e fuori dal giornale, sempre con grande disinvoltura, quasi distrattamente. Ma sappiamo bene quante ansie, quanto studio, quanta attenzione dietro ad ognuna di queste grandi emozioni. Chi ti stava vicino sapeva quanto eri ansioso: ricordi? Decine di telefonate, la radio ha appena detto che.., al baretto di.. mi hanno suggerito che… E noi a correre dietro a tutto, “non se ne può più…” si diceva, ma facevamo, sicuri che il fiuto del nostro Capo non poteva fallire.

Oddio, mi permetto di dirti che sul calcio qualche cantonata l’hai presa. Vivevi di amori improvvisi e fulminanti. Di ritorno dall’Argentina, Mondiali ‘78, avevi la certezza che Kempes fosse il più grande calciatore del mondo. E ne individuasti una specie di sosia in un giovane del Vicenza,

Lovison. Sparirono in breve dalla scena calcistica sia il primo che il secondo.

Ma tra questi amori improvvisi e fulminanti ci fu quello per Zico, il fuoriclasse brasiliano che il “Palazzo” del calcio italiano non voleva far approdare a Udine. Una battaglia memorabile, a colpi di titoli a nove colonne (eravamo ancora alle vecchie, care nove colonne…)

di interventi televisivi: il Gazzettino usato come manifesto, assieme a quel “O Zico o l’Austria” dei tifosi friulani che fece il giro del mondo. Una battaglia vinta. E domeniche memorabili per il calcio del Nordest.

Nello sport hai inventato un linguaggio tutto tuo in tempi in cui tutti cercavano di imitare Gianni Brera, tuo grande estimatore. Ho sempre in mente, come esempio, come descrivesti la parlata di Cerilli, chioggiotto dai buoni piedi: “ha la stessa cadenza di un bragozzo all’ancora”.

Poi quello per Enzo Bearzot, il friulano tutto d’un pezzo, trasparente come un diamante,

“sgroppoloso” di carattere, ma con l’idea fissa del “gruppo”, un gruppo Campione del Mondo.

Già, il “gruppo”. Quel gruppo di giovani, con qualche quarantenne di provata esperienza, ma anche incerta affidabilità (scusami, Capo, l’autocitazione..), sul quale hai plasmato il tuo giornale, il tuo Gazzettino, quello così attento al “Veneto policentrico”, quello così preciso nel distinguere la Sinistra dalla Destra Piave, quel Nordest (ti ricordi che fatica, che pignoleria nel volerlo scrivere proprio così, con una sola maiuscola…), un nuovo nome proprio, un nuovo punto cardinale sul quale

erigere quella cattedrale di consensi che era diventato il nostro giornale. “Devi imparare a mescolare il tuo pragmatismo milanese con le 750 anime diverse del nostro territorio”. 750, o giù di lì, i Comuni di Veneto e Friuli-Venezia Giulia, e “750 devono essere i Gazzettini, perché ogni abitante delle nostre Regioni deve sentirsi legato, dipendente, figlio di questo giornale”.

Già, il giornale di servizio, quello che va incontro alle necessità della gente, quello che risolve i problemi, o quantomeno si da daffare per risolverli: il partito dei sindaci… Tutto nacque da quell’incidente all’incrocio di Motta di Livenza, l’ennesimo mortale. Un incrocio sul quale da diciotto anni si tentava di mettere un semaforo, sempre stoppato dai mille ostacoli burocratici, dalle mille competenze diverse, dai mille dispetti di una politica povera di contenuti, ma ricca di interessi personali. Ed allora in prima fila su Tangentopoli, non per giudicare o tagliare teste, ma per dare una nuova dignità alla “res politica”, quella alta, quella vera. E giù pagine su pagine, fatti e analisi. A lottare con Pietrobelli che voleva sempre 60 righe in più, o con Jori, il cui “modulificio” era sempre al massimo della produttività. E tutti che chiedevano la tua testa, e gli editori (allora…) a far quadrato attorno a te, Una fiducia che hai ripagato sempre, dando credibilità e visibilità nazionale a quello che era considerato un “vecchio giornale di provincia”.

Tempi esaltanti, mio Capo. Tempi di grande, gioiosa fatica, nei quali solo alcuni puntavano a piccoli vantaggi personali (sempre quelli, tutt’oggi), nei quali tutti noi, dal primo all’ultimo, avevamo la certezza di avere il napoleonico bastone da Maresciallo del regno nel proprio zaino di combattente. Proprio come nel Nordest, anche nel nostro giornale c’erano anime diverse, diverse posizioni ideologiche, diverso modo di concepire la comunicazione. Tu, unico vero grande Doroteo, come ti aveva classificato Checco, mediavi ed amalgamavi il tutto, un grande chef dell’informazione che sapeva anche difendere scelte non sue, come quando dovesti affrontare

Achille Occhetto, segretario del Pci, imbufalito da un mio titolo forse eccessivo (ma vero!…)

sulla strage di Tienamen, o i giudici criticati da Pietrobelli o i politici ridicoleggiati da Jori. Ed anche sullo sport il giornale non guardava in faccia nessuno, soprattutto se c’erano di mezzo degli amici: il calcio scommesse, i casi d’illecito di Padova e Udinese: nessuno sconto, la verità per la verità, sempre con la speranza che “i nostri” ne uscissero a testa alta. Già, ci sentivamo proprio una che grande invincibile armata, umorale sempre, ma con grande rigore e rispetto per l’etica del nostro mestiere. Ognuno di noi aveva il suo paracadute attraverso la pignoleria e il sapere di Montagni, Mazzotta e Minazzi, le tre M che volevano dire “misura, moderazione, modestia’ di fronte ad ogni notizia, grande o piccola che fosse Il nostro lavoro nasceva al mattino, nella riunione che coinvolgeva tutti, ma proprio tutti: “chiusimme, meglio parimme”; non so se si scrive proprio così, ma significava che ognuno era abilitato e autorizzato e invitato a portare il proprio parere, un tassello importante nel giornale del giorno dopo. Cresceva, questo lavoro, all’ora di pranzo, sempre da rigorosamente consumato in mensa, in una grande tavolata appoggiata alla parete di fondo, coperta da un orrendo quadro che aveva come unico pregio quello di essere molto grande. Li, tra battute, frizzi e lazzi, si costruiva – presenti quasi sempre l’amministratore delegato Lorenzo Jorio, il direttore generale Andrea Lizza, la responsabile del personale Amabile Cozzuol – il nuovo giornale. Il lavoro finiva, per tutti, in tipografia, tra Beata e Beatin (Vincenzo e Olivo Vianello), Baraonda, Forfora, Formenton, Carciofin, terminali di un lavoro che anche le più moderne tecnologie non ci faranno mai dimenticare, assieme ai loro proti, Pettenuzzo, De Benetti, Meneghetti e gli impareggiabili fratelli Pinti, Dimitri, il maggiore, buon calciatore di serie A. Già, la tecnologia. Hai gestito il passaggio dal caldo al freddo, dalla riga di piombo a quella di carta, poi a quella elettronica, tenacemente avvinto alla tua Lettera 22, rifuggendo dalla cancellatura con il cursore, dal copia e incolla, dall’inserisci a posteriori, preferendo lo “straaap” del foglio sfilato dal rullo della Olivetti, appallottolato e buttato via, e il ricominciare da capo della vecchia scuola di giornalismo. Quando hai dovuto piegarti al computer (ogni giorno dovevi cominciare ad imparare…), quando le cartelle dattiloscritte erano un brutto esempio, allora entravi in tipografia con quattro appunti scritti a mano, ti facevi assegnare un giovane tastierista (o Lorenzo o Giovanni o Germano), un dimafonista della squadra di Faustino e a loro dettavi il tuo fondo, rarissimamente più lungo di quarantadue righe, da sotto la testata ad appoggiarsi alla pubblicità di taglio basso. Il mito di questo direttore sempre in mezzo ai “suoi’ uomini è ancora oggi vivo in tutti, giornalisti, poligrafici e impiegati. Hai gestito due trasformazioni tecnologiche, due ristrutturazioni aziendali

Con uscita di decine di giornalisti ed impiegati, dodici anni di direzione senza un solo giorno di sciopero aziendale, un record che, credo, nessun Direttore potrà mai eguagliare.

Oggi leggo negli occhi arrossati da un pianto sempre meno nascosto di tutti quelli che hanno intensamente vissuto la tua epoca, che ognuno di noi conosceva un Lago diverso, personale, adatto ai bisogni e alle richieste di certezze di ognuno. Oggi capisco che due generazioni di giornalisti sono cresciute secondo una certa logica. E la speranza si rinvigorisce.

Ora dormi tranquillo, attorno a te, Emi, Francesco e Paolo fanno respirare amore, un tappeto sul quale camminare leggeri verso qualsiasi meta Lui ci destinerà. Che le nuvole ti siano amiche. Ciao, mio Capo.

di Mario Reffini