Francesco Jori – Il giornalista che stava con la gente (2015)
Giorgio Lago, il giornalista che stava con la gente
«Diceva le cose che io pensavo, che pensava la gente sul treno». Sta in questa semplice formula, sintetizzata da una persona come Rina Biz che da lui si è sempre sentita sostenuta in tante battaglie politiche e sociali, l’elementare quanto strategico segreto dello straordinario successo di Giorgio Lago: saper cogliere a pelle non solo gli umori superficiali (cosa in cui molti oggi sono cattivi maestri), ma anche e soprattutto i sentimenti profondi delle persone comuni. Quelle cui nessuno dedica i primi piani né le ribalte mediatiche, ma che proprio per questo contano di più: perché sono loro a mandare avanti le cose. Di questo popolo silenzioso Lago, da direttore e da giornalista, è stato l’interprete, il megafono, l’alfiere.
Per questo, a dieci anni dalla sua scomparsa, rimane più vivo che mai, e non solo nel ricordo: perché i soli ricordi sbiadiscono fino ad evaporare, le eredità forti rimangono e producono frutto. Che forte sia stato il suo legato, lo testimonia il libro che verrà presentato domani in università a Padova, nell’evento dedicato all’anniversario: un’ampia sintesi degli editoriali scritti prima sul Gazzettino, poi sui quotidiani locali del gruppo Espresso. Rivisitarli oggi consente soprattutto di cogliere la straordinaria capacità di sguardo lungo che lo caratterizzava: come quando, nel 1986, quindi ben prima di tangentopoli e con una prima Repubblica ancora pimpante, scriveva che “tutto il sistema dei poteri scricchiola, sottoposto a mutamenti e tensioni”, e spiegava che la sola risposta efficace era quella di “una Politica con la maiuscola”. O come quando, un anno dopo, denunciava con larghissimo anticipo che “queste Regioni vanno rifatte”, e sollecitava a cambiare in fretta perché “il malessere può sfociare in una polverizzazione di campanile che rappresenta l’angolo cieco dell’autonomia”. E come quando infine, all’inizio degli anni Novanta, avvertiva che la disaffezione montante verso la politica “non ha come bersaglio i partiti ma la partitocrazia, cioè una degenerazione che umilia prima di tutto la Costituzione repubblicana”. Ha ottenuto risultati e prestigio sempre più rari a trovarsi, in un mondo dell’informazione invaso da una torma di guitti e mediocri. E ci è riuscito non solo per le sue qualità professionali, ma anche per la straordinaria capacità di fare squadra, perché per lui davvero il quotidiano era un lavoro di gruppo: gruppo che non si fermava ai giornalisti, ma comprendeva impiegati, tipografi, centralinisti, fattorini, ai quali tutti dedicava un’attenzione, una battuta, un incoraggiamento; comprese critiche ispirate a una sana pedagogia dell’informazione: non quella urlata e banalizzata di oggi, ma quella rigorosa che la realtà la va a investigare sul campo anziché costruirla a tavolino. Ha anche coltivato straordinarie amicizie: la più significativa delle quali è stata certamente quella con padre Davide Maria Turoldo, con cui ha condiviso il duro destino nella morte stessa. Di lui ha scritto un giorno Lago, ricordandone la figura: “Non si poneva per principio il problema della con. venienza; se ne fregava radiosamente del cui prodest. La stessa cautela nel comunicare gli appariva sinonimo di insincerità se non di ipocrisia”. Sono parole che si potrebbero applicare pari pari a chi le ha scritte. Perché anche Giorgio Lago non ha mai sofferto della servile e furbesca cautela del comunicare. La sua strada maestra è stata quella di schierarsi da una sola parte: “Il nostro mestiere non è quello di fare i demiurghi né i messia né i Narcisi con l’ambizione di guidare sia il Palazzo che la Piazza. La nostra bussola non può che essere il lettore, l’opinione pubblica, il cittadino cui mettere a disposizione uno strumento di controllo. Il Quarto Potere, come viene chiamata l’informazione, non per aggregarsi ai poteri costituzionali, ma per funzionare costantemente da difensore civico”, scriveva nel 1994. Ha tenuto fede a questo impegno fino all’ultimo; ed è questa l’eredità più vera e più preziosa che ha consegnato a chi ne ha condiviso il percorso, ma anche ad una terra che ha amato con veemente passione. L’avrebbe voluta vedere come laboratorio in cui cominciare a costruire un’Italia diversa e migliore, rovesciando il riduttivo slogan “prima il Veneto”, così estraneo alla storia e al Dna dei veneti, in un coraggioso e orgoglioso “il Veneto per primo”: sulla strada del rinnovamento. Non c’è riuscito; ma ci ha provato fino all’ultimo, come testimonia il suo articolo che pubblichiamo in questa pagina. Ci manca davvero; ma quello che oggi ci chiederebbe, se potesse, è di raccoglierne la bandiera senza arrendersi alla dittatura dei mediocri.
di Francesco Jori