Ulderico Bernardi – Intervento al premio Giorgio Lago (2015)
Intervento al premio Giorgio Lago edizione 2015
Siamo nati in provincia. In paesi di antica urbanità. Là dove il Veneto sfuma ormai nel Friuli e gli abitanti si fregiano orgogliosamente del blasone di “sinistra Piave”. Guido Piovene sosteneva che a Oderzo comincia l’Oriente d’Europa. In effetti su quella sponda del fiume “Sacro alla Patria” il sentimento d’identità è pronunciato e il radicamento robusto, per vicende storiche condivise nei millenni, La campagna è fiorente: viti alte più di un uomo, danno il robusto vino Raboso, campi di mais privilegiano la polenta bianca. Una terra antica, solcata da canali e risorgive che sgorgano dalla Piave matrice.
Non sto usando il plurale maiestatico, ma semplicemente collocando nello scenario nativo la vita di Giorgio Lago e mia. Coetanei, classe 1937. Da ragazzi abbiamo avuto le medesime opportunità di apprendere la natura e i suoi ritmi, e insieme a comprendere che l’intelligenza degli uomini non dipende dallo status sociale. Che la discriminazione è un abuso che si può vincere, e la povertà superare. Quando abbiamo frequentato le scuole elementari ci portavamo da casa un ciocco di legna da ardere, per la stufa dell’aula, in quegli anni di penuria e di guerra. Siamo nati in famiglie di borghesia impiegatizia (segretario comunale suo padre, economo municipale il mio). A tavola ogni giorno e nei dialoghi familiari ascoltavamo parole oggi desuete, pronunciate con convinzione: decoro, dignità, rispetto, onore. Mentre sui banchi, seduti a braccia conserte, ci veniva ispirato l’amor di Patria. Un sentimento, per quella nostra età limpido e naturale. Oggi dissolto nella vacuità della frammentazione partitica e nella litigiosità endemica della politica, che hanno elevato il tasso di aggressività a livelli mai immaginati. Quelle parole borghesi erano chiavi verbali che aprivano a valori fondanti. Il nostro agire adulto non le avrebbe mai dimenticate. Crescere nei paesi veneti di allora è stato importante. Ci avrebbe consentito nella maturità di comparare la misura del mutamento, e tenere nel conto dovuto la tradizione, col suo potere di mantenere il consenso tra le generazioni. La guerra, mondiale e infine civile, ha lasciato in noi segni immemori e memorie di strazi. Gli anni dell’infanzia di paese ci hanno fatto anche percepire la discriminazione verso la classe allora maggioritaria: il vituperio anticontadino era viscerale, marchiava il disprezzo e stabiliva un distacco tangibile tra abitanti di città e di campagna durato secoli. Si sarebbe dissolto, e non ancora del tutto, solo una generazione dopo. Era un Veneto povero, falcidiato dall’emigrazione che continuava (nei nostri paesi della Sinistra Piave, tra Ottocento e Novecento, se n’era andato un terzo della popolazione). Ancora nel secondo dopoguerra su 100 case venete solo 52 avevano l’acqua corrente, 48 disponevano del gabinetto tra le mura domestiche, 28 possedevano un bagno, 19 il gas di rete, 14 su 100 il riscaldamento col termosifone e 85 la luce elettrica. Il reddito medio pro capite fino al 1970 si mantenne al di sotto della media nazionale italiana (fatta uguale a 100, per il Veneto era 98,9). Poi, in un breve volgere di anni, si avvierà e si compirà la grande trasformazione. Nel 1966, per la prima volta in poco meno di un secolo il numero dei rimpatriati dall’estero aveva superato quello degli espatriati.
Nel 1971 il reddito supererà di poco la media nazionale, salendo a 100,6. La “Calabria del Nord” si stava emancipando dalla miseria con le sue forze. La meccanizzazione dell’agricoltura segnava la fine delle mezzadrie, sciogliendo i patti della famiglia patriarcale legata al lavoro manuale. Nei censimenti, gli occupati nel settore primario risulteranno dimezzati, principalmente in favore degli addetti all’industria: sulla scena sociale faranno la loro comparsa i miei “metalmezzadri”, contadini con un piede in fabbrica e l’altro ancora sulle zolle. Saranno i futuri imprenditori artigiani, capaci di evolvere nell’impresa piccola, media e grande dei decenni successivi. Le generazioni dei giovani italiani, che intorno al 1950 avevano un’istruzione che durava in media 3 anni e mezzo, conosceranno una progressiva estensione della loro frequenza scolastica, fino a raggiungere gli attuali 11 anni. Dato conforme alla media dei Paesi occidentali. Tutto questo abbiamo si è depositato nella nostra memoria, mia e di Giorgio, mentre condividevamo per anni la pendolarità sulla linea ferroviaria Motta di Livenza-Oderzo-Treviso, per frequentare le scuole superiori. Una condizione di viaggiatori che proseguirà poi verso Padova per lui, già residente a Castelfranco, e alla volta di Venezia per me. Parteciperemo entrambi anche dell’esperienza profittevole del trapianto temporaneo in Lombardia, a contatto con realtà urbane e con mentalità diverse dalle nostre. I suoi cinque anni a Milano valgono i miei dieci anni a Bergamo. Torneremo in patria per i nostri mestieri, arricchiti di stimoli e di relazioni, come sempre accade a chi si mette alla prova fuori dall’uscio di casa.
Nell’affettuoso ricordo che ne traccia l’amico e collega Francesco Iori, che con Gianni Riccamboni ha raccolto il fiore degli scritti di Giorgio, si ricorda come Giorgio sostenesse di “sentirsi contadino dalla testa ai piedi”. Per amore della terra, per i giochi e le arie della sua amata Vazzola, ma, è da credere, per aver saputo tradurre il succo delle radici native nella solidità naturale dell’argomentare, e per avere ricavato da quell’appartenenza la consapevolezza del valore delle culture locali, così da comprendere come l’amore per la propria sia condizione per rispettare il sentimento che ciascuna persona nel mondo porta alla sua. L’empatìa, il rispetto per la diversità, per l’Altro e l’Altrove, nasce in questo modo. Respingendo ogni tentazione di avido localismo. Qui sta il nucleo della sua passione intellettuale. E non a caso nel libro che ripropone i suoi editoriali la parola autonomia ricorre così di frequente. Un riferimento morale, che traduce nei fatti lo spirito di iniziativa e di responsabilità personale di cui è stato testimone nella straordinaria e pacifica rivoluzione veneta degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Quando, direttore del “Gazzettino”, volle che Sandro Meccoli compisse un’approfondita inchiesta nelle Venezie in mutamento, poi raccolta nel libro “Passaggio a Nord-Est” (1987). Nell’indagare sui processi di innovazione dell’arco adriatico, realizzati per lo più come sviluppo endogeno e auto centrato, ad opera di famiglie-impresa, secondo spontanei schemi maritainiani di personalismo comunitario, era emerso come la condizione per la fecondità delle culture era ed è la mescolanza: delle esperienze e delle identità, culturali e sociali. Non a caso i protagonisti dello sviluppo veneto sono stati per lo più gli ex emigranti.
Confronto coraggioso e saldo radicamento nella tradizione intesa come condivisione di senso esistenziale fra le generazioni, quale sostegno all’innovazione. Con la comunità locale come attore collettivo della persistenza, e la persona come attore individuale del divenire. Nella continuità. In una rete di relazioni che l’industrializzazione diffusa non ha slabbrato. Rendendo possibile la conferma di un’intuizione fondamentale, che si deve a uno dei padri fondatori della sociologia, ignorato nei secoli dell’eurocentrismo, il mussulmano tunisino Ibn Khaldun, che nel XIV secolo ebbe a legare l’efficacia dell’azione collettiva allo spirito di comunità, da lui inteso come “l’armonia delle intelligenze e il consenso delle volontà”. Giorgio Lago, con la sua profonda partecipazione agli eventi delle Venezie, dall’osservatorio dell’affermato quotidiano del Nord Est, intravide la possibilità di dare sostegno di informazione onesta e aperta a uno sviluppo consapevole, premiando lo sforzo compiuto con la grande trasformazione che aveva cambiato la condizione umana in queste terre. Fu allora che lanciò la sua battaglia sulla cultura delle autonomie per l’autonomia delle culture. In termini sociopolitici, per il federalismo. Non per il separatismo regionale, che giustamente considerava la tomba del federalismo, ma per un’Italia che restituisse alle sue componenti regionali quella pienezza di intelligenza creativa che il succedersi dei centralismi – prima sabaudo, poi mussoliniano e infine partitico – a suo parere “aveva schiacciato il Paese”, mortificando secoli di specificità comunali. Ritornavano in questi suoi convincimenti, gli indirizzi di pensiero formulati da Nicolò Tommaseo, il padre spirituale dello Stato Veneto, multietnico e rispettoso delle culture locali, che avrebbe voluto esaltare le singolarità della storia italiana.
Un dei più grandi vantaggi d’Italia – scrive il Dalmata – son le vestigia e le memorie di civiltà fresche e vive non solo nelle città grandi, ma forse più e meglio ne’ luoghi minori, ne’ quali l’antica Italia è più da riconoscere che in altri, e ne’ quali agli occhi miei è la più sicura speranza.
Il credo federalista di Tommaseo, ministro della cultura al tempo della rinata Repubblica Serenissima del 1848, si articola a partire da una considerazione di base: Il Municipio è della Nazione il vero fondamento! (Passato e Presente, 1850)
Anche un altro autore apprezzato e citato da Giorgio Lago insisteva in questa visione. Giuseppe Prezzolini, che in pieno regime, negli anni Trenta del Novecento, mentre insegnava alla Columbia University di New York, scrisse: Contenuto nei limiti della originalità tradizionale, il regionalismo, nonostante i suoi difetti e pericoli, è in Italia una realtà che non si cancella. Esso può giungere fino al vizio del campanilismo, ma però è una grande forza, una speranza di varietà e di originalità, una sicurezza di continuità nel lavoro e di vitalità nel paese, perché se un centro s’addormenta o vien colpito, subito un altro subentra nella funzione. (La cultura italiana, 1930)
Un disegno che è stato più e più volte distrutto, anche nell’Italia democratica e repubblicana, dall’insipienza e dalla pervicace cattiva volontà partitica nei confronti delle autonomie reali. Contro cui si infransero anche i tentativi di Adriano Olivetti, che aveva ammonito: Solo con il trionfo della persona nella comunità, mondo materiale e mondo spirituale si concilieranno secondo unità, e la strada della speranza sarà aperta agli uomini. (Il cammino della Comunità, 1959)
Su questi intendimenti proseguì nella sua opera Giorgio Lago, esponendosi quasi quotidianamente con editoriali che ne ribadivano le finalità. Un riformatore colto e dalla saggezza antica, che auspicava il successo del movimento dei Sindaci del Nord Est contrastato e infine immiserito nella sua azione dalla grettezza ideologica. Un’opera, quella di Giorgio Lago, lungimirante e meritoria che non è stata dimenticata. Lo ha dimostrato la folla che riempiva l’Aula Magna del Bo il 13 marzo scorso, nel decennale della morte. Del resto è sufficiente rileggere quanto scriveva in un suo editoriale quasi vent’anni fa prevedendo le conseguenze che sarebbero venute dal non dare seguito alle aspettative di reale autonomia responsabile, per ritrovarle puntualmente confermate oggi, in un ulteriore degrado.
La sua è un’istantanea del presente. Scriveva: Basta guardarci attorno, se abbiamo ancora stomaco e pazienza. Il Parlamento ridotto a mero gioco di sopravvivenza; i partiti in fuga dalla realtà; le Istituzioni ciascuna costituzionalmente fuori ruolo rispetto all’altra (…) Corriamo un grave rischio di neo qualunquismo di massa. Cioè finire con il credere, per stanchezza civile, che i politici siano oggi tutti incapaci come ieri tutti ladri; che oggi i burocrati siano tutti inefficienti come ieri tutti complici; che dunque la stagione della speranza sia già stata ruminata dal sistema. E ciò è falso. (Il Gazzettino, 11 gennaio 1996)
Analisi critica senza nessuna concessione al nichilismo. Ancora una volta, questo raro esemplare di cattolico liberale rilanciava la fiducia e la speranza. Consapevole, tuttavia, che non è questione di pura ingegneria costituzionale e che è urgente salvare l’anima delle generazioni.
Scriverà infatti Lago qualche mese dopo: Temiamo però che, per la storica riforma dello Stato, non basti lasciarsi guidare dagli interessi. Insomma un Paese moderno non ce la farebbe a mobilitare le giovani generazioni con l’unica bandiera dell’efficienza. Questa va sostenuta da un ideale, termine sprofondato nell’oblio e nel cinismo eppure necessario se la riforma dello Stato burocratico punta anche a ricostruire il senso dello Stato. Valore questo che tiene insieme una comunità, nonostante aree di interessi spesso disomogenee o divergenti, come sta accadendo tra il nostro Nord e il nostro Sud. (Il Gazzettino, 7 maggio 1996).
Altra parola tratta dal lessico familiare: l’ideale. Di contro al cinismo contemporaneo una visione alta, umanistica. L’umanesimo è il più grande dono che l’Europa, e più in esteso l’Occidente, abbiano fatto al mondo, anche se non annulla le loro colpe.
Considerava il grande scrittore ungherese Sandor Marai nelle sue “Confessioni di un borghese”: (l’umanesimo) fu vivo solo in Europa come esigenza di formazione di destini umani, comportamento spirituale e convivenza sociale.
E il Senegalese Léopold Sédar Senghor nel conferimento del Premio Internazionale Nonino 1985, specificava: il problema principale dell’umanesimo è quello di trovare le radici della propria cultura per conoscere l’Altro, arricchirsi tramite lo scambio delle nostre diversità.
Questo fu lo scopo cui mirava Giorgio Lago, insistendo sulla conoscenza dei valori e della storia della civiltà veneta. Non solo per un legittimo recupero dell’autostima collettiva, ma per metterci validamente nella condizione di affrontare la grande questione del tempo presente: come mantenere la propria identità, nel rispetto del patrimonio ereditato dagli avi, e aprirsi al mondo con tutte le sue culture. Convinto che il confronto e lo scambio rappresentano il progresso dell’umanità.
Chiese per questo aiuto a collaboratori come David Maria Turoldo, Padre Servita, friulano, predicatore e poeta, amato da Giorgio che ne apprezzò sulle pagine del Gazzettino la capacità di scolpire il Male nelle sembianze del dio del consumo e della roba, dell’odio etnico e della dissipazione ambientale. In un tempo di corruzione delle parole – scrive Giorgio nel suo ultimo editoriale da Direttore – il prete friulano ha cantato la volontà di edificare mattone su mattone una società più giusta, che proprio perché ricca non chiuda gli occhi su povertà vecchie e nuove che tuttora danno scandalo tra noi. (Il Gazzettino, 8 giugno 1996).
Un testo vibrante, disincantato e smitizzante, dove ripercorrendo le tappe del suo impegno a favore del Nord Est, spiega di non aver voluto mai adagiarsi sul narcisismo regionalistico ma nemmeno piegarsi alla subalternità: né mone né eroi, con parole sue. Attenendosi alla regola dell’ora et labora di chi ha imparato dalla fatica contadina che il lavoro è anche ancestrale paura di perderlo.
E chiudendo con questa frase: Pochi giorni fa mio padre ha lasciato a noi figli qualche riga di testamento spirituale, lui che era un gran vecchio, dell’altro secolo, e che ci raccontava del Grappa, della Bainsizza e di Caporetto come si narra una favola antica. Mi tengo addosso una sua riga: “Non vi lascio sostanze, ma un patrimonio di onore”.
Ecco, torna la parola che oggi troppi tengono banalmente in conto di retorica, di retrograda, legata solo al costume di tempi andati. Non è così. Il suo valore è permanente, e rifulge anche in un presente che pretende di distogliere le giovani generazioni da tutto ciò che è duraturo, eterno, stabile. Dimenticando che la stima degli onesti è l’onorificenza dei buoni, oggi come ieri e come sarà domani. Giorgio ce lo insegna con la sua memoria viva. Col suo lascito di commiato nella lingua nativa: Vardé che queo che conta xé volerse ben!
di Ulderico Bernardi