Marco Almagisti – Il Veneto di Giorgio Lago

Il Veneto di Giorgio Lago. Una proposta di lettura

Ormai più di un secolo or sono, Georg Simmel cominciava il nono capitolo della sua fondamentale Soziologie descrivendo l’insopprimibile soggettività di ogni apposizione di confini e così si esprimeva per evocare la vischiosità delle mappe cognitive che ridefiniscono i “luoghi” entro cui viviamo le nostre esperienze: Non vi è forse nulla che dimostri con tanta evidenza la forza specialmente della coesione dello Stato quanto il fatto che questo carattere centripeto dal punto di vista sociologico, questa coerenza in ultima analisi soltanto psichica di una personalità,
cresca fino a diventare un’immagine, sentita quasi fisicamente, di una linea di confine che serve a delimitare stabilmente.Raramente ci si rende conto di come l’estensione dello spazio venga qui mirabilmente incontro all’intensità delle relazioni sociologiche, di come la continuità dello spazio, proprio perché soggettiva non contiene mai un confine assoluto, proprio perciò permette ovunque di fissarlo soggettivamente. Di fronte alla natura ogni determinazione di un confine è arbitrio, perfino nel caso di una posizione insulare, perché in linea di principio anche il mare può sempre essere “preso in possesso”2. Pertanto, Simmel ci ricorda che il confine non è un fatto spaziale che produce effetti sociologici e politici, bensì una costruzione sociologica e politica che si delinea spazialmente3. In tale prospettiva, il richiamo ad un territorio non è mai destinato a un mero spazio fisico, bensì ad un prodotto dell’agire di popolazioni nel succedersi delle generazioni. In altri termini, un contesto territoriale è tale solo in virtù di un’attribuzione di senso che lo identifica come tale.

Riflessioni cosiffatte ben si prestano all’analisi delle trasformazioni di un contesto quale quello Veneto, che ha vissuto negli ultimi trent’anni un sovraccarico di tensioni (sino alle manifestazioni di protesta più radicali giunte al punto di minacciare l’appartenenza allo Stato nazionale) e sperimentato trasformazioni profonde, contribuendo in modo decisivo al cambiamento dello scenario politico italiano. Tutto questo ha contribuito a convogliare un’attenzione diffusa nei confronti degli accadimenti politici e sociali che si verificavano nell’Italia nordorientale. Dagli anni Settanta, con l’avvio del dibattito sulla c.d. “Terza Italia”, la sociologia si è soffermata sul Veneto del secondo dopoguerra quale zona di subcultura territoriale “bianca”, ossia quale particolare sistema politico locale, dal profilo partitico fortemente marcato, in cui si sono radicati e sviluppati distretti industriali di piccola e media impresa. Anche se oggi il partito di riferimento è scomparso e il ruolo di mediazione fra mercato e società locale svolto in precedenza dalla Chiesa e dai suoi enti collaterali si è molto ridotto, i distretti di piccola e media impresa continuano a costituire un elemento peculiare dello sviluppo produttivo italiano, sebbene siano messi a dura prova dalla crisi4. Ancor prima che emergessero in tutta la loro evidenza le difficoltà di integrazione di quest’area nel sistema politico nazionale, buona parte della storiografia che ha analizzato le radici culturali del Veneto ha ricordato come gli accadimenti strutturanti un’identità collettiva di quest’area vadano ricercati nel processo di edificazione dello Stato italiano, ma facendo costanti riferimenti alle vicende della Serenissima repubblica di Venezia e al successivo periodo napoleonico5. La scienza politica, soprattutto nelle analisi dei politologi della “Scuola padovana”, si soffermano principalmente sul ruolo di fattori specificamente politici nello sviluppo del Veneto (caratteristiche delle culture politiche e del capitale sociale, capacità di rappresentarle da parte delle istituzioni e dell’offerta politica, struttura e radicamento dei partiti, peculiarità dei modi di regolazione dello sviluppo locale e degli stili amministrativi), collocandone lo sviluppo entro un’ampia analisi diacronica del sistema politico italiano, in cui l’area nordorientale, specie negli ultimi decenni, ha dettato tempi e modi6. Emergono già da questo sguardo d’insieme sulle possibili prospettive d’interpretazione della recente storia politica del Veneto alcuni problemi di definizione. Di cosa parliamo quando parliamo di Veneto? Sottintendiamo una realtà ben definita, oggi circoscritta dai confini amministrativi della Regione Veneto? Oppure, riprendendo la lezione di Simmel, riteniamo possibile storicizzare tali confini e facciamo riferimento ad una realtà più ampia, tendenzialmente coincidente con parte sostanziale del Dominio di terra della Serenissima, cui di volta in volta alludiamo con termini diversi: “Tre Venezie”, “Nordest”, “Veneto largo”7? Oltre ai confini amministrativi possiamo storicizzare anche le caratteristiche dei fenomeni culturali e collocare nel divenire storico il Veneto “bianco”, inteso quale particolare configurazione sociale che ha caratterizzato l’Italia nordorientale per circa un secolo (la subcultura “bianca” dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento), la cui implosione ha fatto emergere forti elementi di conflitto che hanno costretto anche i più refrattari ad aggiornare le proprie mappe cognitive. Infatti, proprio il mite e idillico Veneto delle tradizioni che si rigenerano in un’ipotetica e atemporale quiete dei campi e nella operosa educazione popolare della vita di parrocchia mette invece materialmente e idealmente a soqquadro l’intero Paese. D’altronde, “niente di meno naturale e più costruito del paesaggio veneto”9, sostiene già a suo tempo un profondo conoscitore della nostra storia patria, in un brano compreso nel volume della Storia d’Italia Einaudi dedicato al Veneto. In questo volume fondamentale e, da molti di noi, amato e studiato, Mario Isnenghi propone alcuni strumenti di analisi del Veneto che si commisurano alla sua natura intimamente plurale e, in particolare, una lettura dell’evoluzione culturale del Veneto attraverso l’evocazione letteraria: il Veneto è anche un sogno letterario, un’accumulazione narrativa opera dei suoi scrittori. E di poche aree regionali italiane si potrebbe dire, quanto di questa, che possiedono una linea letteraria. Ippolito Nievo e Antonio Fogazzaro – per dichiarare subito i nostri eroi eponimi – sono i capostipiti ideali di una possibile alternativa letteraria, che altre ne sottintende, e che accade talvolta di veder trapelare riandando alle opere dell’Otto e del Novecento10. In tale ambito “si avvolge spesso su sé stessa la letteratura di parrocchia e di villa”, che rappresenta, nell’immaginario collettivo italiano, la corrente culturale eternamente egemone in Veneto. Tale corrente culturalmente maggioritaria subisce “un magnetismo [che] comporta l’essere attirati e una rotazione centripeta attorno alla centralità delle figure e delle situazioni ecclesiastiche”. Anche i fermenti critici e le rimostranze concorrono a riconfermare l’iconografia di quel Veneto “bianco” scolpito con maestria letteraria da Antonio Fogazzaro: anche quando lo critica, la letteratura main streaming ribadisce il protagonismo ecclesiastico. Accanto a questa robusta linea letteraria veneta, ve n’è un’altra, più laica e “smagata”, “nordestina”, che Isnenghi vede coagularsi attorno all’opera di Ippolito Nievo e che poi produrrà nel Novecento alcuni capisaldi della letteratura italiana, quali i vicentini “non” di città Luigi Meneghello e Mario Rigoni Stern e il trevigiano (di Pieve di Soligo) Andrea Zonzotto, attenti indagatori dei molteplici rapporti di attrazione, fertilizzazione e contrasto fra città e campagna, fra realtà urbana e montagna. Queste due linee letterarie in Veneto convivono, si scrutano e si interrogano (soprattutto la seconda nei confronti della prima) e se la storia, la sociologia e la scienza politica contemporanea hanno proposto ricostruzioni empiriche dettagliate e precise di quella che è stata definita la subcultura “bianca” del Veneto, le pagine della letteratura migliore possono aiutare a comprenderne i retaggi storici di lungo periodo e il loro riverberarsi nella cultura politica diffusa. A tal proposito, possiamo apprezzare l’evocazione vivida dell’apparente intangibilità della “filigrana bianca” nelle pagine di un autore fra i più significativi del secondo Novecento italiano, quale Luigi Meneghello:

Giovanissimo vincitore – correva l’anno 1940 – dei littoriali nell’ambito della “dottrina fascista”, poi avvicinato agli ideali di libertà e democrazia dal suo maestro Antonio Grullo, partigiano legato al Partito d’Azione subito dopo l’8 settembre 1943, Meneghello trascorrerà l’intera vita adulta a riflettere sui mutamenti e le persistenze nella cultura degli individui e delle società. Tale straordinario impegno analitico passerà sempre attraverso il prisma delle esperienze vissute durante la Resistenza e la transizione alla democrazia assieme ai suoi amici “deviazionisti crociani di sinistra”. In questa sua incessante ricerca, non aliena rispetto ad una linea di temperata delusione per alcune pieghe prese dalla storia patria nel dopoguerra, Meneghello descrive – allontanandosi, attraverso un’esperienza da lui definita Dispatrio – il Veneto “bianco” nella sua complicata transizione alla modernità. Si tratta del Veneto che attraversa il fascismo e approda alla “Repubblica dei partiti”, di cui costituirà un pilastro. È quel Veneto “bianco” che, grazie all’azione di un grande leader politico radicato nella storia dell’Italia nordorientale, il trentino Alcide De Gasperi, compie il suo ingresso nella democrazia e garantirà per decenni la principale cassaforte di consenso per il partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana18. La scienza politica contemporanea descrive tali processi attraverso la metafora dell’ancoraggio, quando le istituzioni politiche agiscono sui corpi intermedi allo scopo di “convertire” alla democrazia un’ampia porzione della società (almeno quella porzione che consenta alla democrazia di radicarsi e prosperare). Tale metafora simboleggia i processi di “aggancio” e di “legame” che le classi dirigenti indirizzano ai soggetti di una società civile nella quale la legittimità goduta dal regime democratico non è subito ampia e approfondita, bensì limitata e relativa19. Nel consolidamento della democrazia italiana, l’ancora principale è stata la presenza di un sistema dei partiti strutturato e pervasivo e, in particolare, di un partito quale la Dc che poteva radicarsi nel bacino di fiducia sedimentata capillarmente dalla Chiesa nel corso dei secoli in tutta l’Italia nordorientale. Naturalmente, il “bianco” di quel Veneto celava un cono d’ombra in cui le altre soggettività politiche sembravano rimpicciolirsi, in alcuni casi sceglievano addirittura di “dispatriarsi”, ma non per questo cessavano di essere significative. Al laico, liberale, “inguaribile riformista” Giorgio Lago tocca, invece, descrivere e valutare un processo, sotto molti aspetti, opposto, di “disancoraggio” dalla Repubblica dei partiti e di incrinatura irreversibile dei riferimenti, culturali e strutturali, del Veneto “bianco”. Non appaia forzato l’accostamento della narrazione del Nordest proposta da Giorgio Lago rispetto alle opere della grande letteratura veneta, da Meneghello a Mario Rigoni Stern. Recenti opere complessive dedicate alla storia della letteratura italiana, anche molto distanti fra loro, concordano nel sottolineare il ruolo del giornalismo di qualità nella costruzione dell’opinione pubblica e nel corroborare e diffondere idee innovative21. Piuttosto, è opportuno evidenziare che, se gli anni Ottanta e Novanta segnano il “disancoraggio” dei grandi partiti di massa dalla società (e, pertanto, dal loro radicamento nelle società locali, quasi fossero dei partiti “senza il territorio”), il giornalismo di Giorgio Lago sceglierà di interpretare il Nordest rimanendovi radicato fino all’ultimo. Quando, nel 1896, terminata la sua esperienza quale direttore de «Il Gazzettino», Lago approderà al Gruppo Editoriale L’Espresso, egli declinerà l’invito a ricoprire ruoli consoni al suo talento giornalistico con la motivazione di non volersi allontanare dal Nordest. Ossia, di evitare un Dispatrio. Nel 1984 Giorgio Lago diventa direttore de «Il Gazzettino», un giornale in cui lavora dal 1968 e verso il quale ha nutrito sentimenti contrastanti. Lago ottiene la guida della testata veneziana dopo una lunga esperienza di cronista ed inviato sportivo, in cui i suoi modelli sono stati Gianni Brera ed Indro Montanelli, ossia due grandi giornalisti che erano, al contempo, due grandi scrittori. La proposta della proprietà de «Il Gazzettino» di nominare alla direzione del quotidiano il caporedattore dei servizi sportivi Giorgio Lago è accolta dall’assemblea dei giornalisti con un consenso molto ampio: 65 favorevoli, 3 contrari e 5 astenuti. Il nuovo direttore è un lettore colto e onnivoro, affezionato a «Le Monde» ed instancabile appassionato di saggistica, che sin dalla giovinezza si è nutrito del liberalismo di Croce, Gobetti, Calamarei, Einaudi, del personalismo cattolico di Maritain, dell’impegno cristiano di David Maria Toradol, del confronto con il comunismo spietato di Norberto Bobbio. Questa ricca tessitura di riferimenti rende nitido il suo profilo culturale, che emerge già nel saluto ai lettori del 21 giugno 1984:  Il quotidiano che Lago giunge a dirigere nel 1984 fa parte da decenni dell’arredamento del Veneto “bianco” e ne rappresenta uno degli elementi non secondari a garanzia della sua riproduzione.

di Marco Almagisti