1970 settembre 22 Se il calcio è spettacolo fischiare è lecito
1970 settembre 22 (Il Gazzettino)
Se il calcio è spettacolo fischiare è un diritto
Un nuovo tipo di pubblico
Oscar Massei ha dichiarato domenica scorsa nello spogliatoio del Treviso: « Non si può dire che il
pubblico ci aiuti molto ». L’allenatore argentino si riferiva a fischi di delusione, a qualche sfottò, al
mormorio della gente dopo almeno 45 minuti di non-gioco. L’atteggiamento di Massei non è
originale: appartiene un po’ a tutti i panchinari del calcio italiano. E riflette la visione di un football
non più attuale, anzi superatissimo. Un football cioè ancorato più al dilettantismo o al
dopolavorismo che al professionismo.
La realtà sociale appare ogni ora più articolata e interdipendente: l’industrializzazione, l’asfalto,
l’auto, il movimento di uomini e merci appiattisce inesorabilmente città e paesi, tradizioni
particolaristiche e paratie da « maso chiuso ». In questa realtà sociale, il campanilismo si
affievolisce, nel calcio e altrove. Le nuove generazioni del tifo mettono radici più nel mito sportivo
che nello spirito di « strapaese ». La partecipazione al folklore di una partita di calcio si fa sempre
più circoscritta. Legata spesso ai soli Clubs organizzati o a match particolari come il derby. Il vero
campanilismo, cucito alla tradizione della « Società Sportiva » più che ai nuovi totem (Helenio,
Rivera, Riva, eccetera), regredisce con lo sviluppo industriale, con lo scetticismo ispirato dalla
cultura. Anche su questo piano esiste stacco tra Nord e Sud.
Dieci anni fa, quando Moratti assunse Helenio Herrera, il Mago volle una sede nuova per l’Inter.
Non tanto per esigenze logistiche, ma perchè considerava la « storica » Via Olmetto come un covo
di vecchie bandiere nerazzurre colme di gloria e di insofferenza per le nuove frontiere. Ci fu
un’opposizione feroce allo spostamento in Via Dante 7. Ma vinse Herrera; vinse la Spa. Beppino
Meazza lo giudicò quasi un tradimento, ma alle migliaia di giovani fans, che colmavano cinque ore
prima del match le gradinate di San Siro, il trasferimento di sede non disse assolutamente nulla: era
soltanto un « trasloco » di mobili e trofei.
Il calcio di oggi, il calcio delle Spa, offre bilanci che vanno vidimati in Tribunale; ingaggi da un
milione al mese in serie C; premi-partita sensazionali; spese di gestione enormi; il Sindacato
calciatori; le interrogazioni in Parlamento; la moviola; le scuole per gli arbitri; quattro quotidiani
sportivi; i progetti di assicurazioni-pensione per i protagonisti. Tutto ciò può essere Sport con la
esse romantica, per un tifo di campanile, per la bandiera tenuta sempre alta anche quando in campo
i « baldi ragazzi » delle vecchie cronache non riescono a battere il « pur gagliardo avversario »? No.
Allenatori e giocatori, contro la contestazione per salari da nababbi, rispondono (giustamente)
riferendosi ai guadagni di Mina o di Rascel: « Noi — dicono — siamo i protagonisti dello
spettacolo calcistico. Perchè non parli soldi che vanno ai protagonisti di altri spettacoli? ». Concetto
chiaro. Ma che esige coerenza. Il pubblico della « Bussola » fischiò Rascel, un professionista. Il
pubblico del calcio, a Treviso come all’Olimpico, ha il « diritto » fischiare la propria squadra. E’
anacronistico che
il calcio-spettacolo pretenda dal pubblico una presenza sentimentale.
Constatazione malinconica, da fare con coraggio, senza gli occhi velati dalla nostalgia.
I prezzi d’ingresso aumentano. Allenatori e giocatori hanno imposto negli ultimi 10 anni una
scala mobile sopportabile dall’Aga Khan e subita invece anche da presidenti-ragionieri. Pigliano i
soldi per offrire uno spettacolo. Se non riescono a realizzarlo, la gente fischia, dopo aver pagato.
Massei & C. debbono cancellare dallo spogliatoio espressioni paternalistiche e piangine, fuori
tempo. Il problema del pubblico, oggi, è un altro: e si chiama teppismo. La violenza di pochi che
umilia tutti.