1984 settembre 30 Un falso in atto pubblico
1984 settembre 30 – Un falso in atto pubblico
Per sette giorni, fino a ieri, ho condotto dagli studi Rai di Roma la rubrica radiofonica «Prima pagina»,
una mezzora per la rassegna della stampa, una mezzora per rispondere alle domande degli ascoltatori
sulle notizie di giornata. È stata un’esperienza utile, che mi consente alcune osservazioni in presa
diretta.
La gente ha bisogno di parlare, e non lo fa per istinto alla fabulazione. C’è fame autentica di risposta ai
troppi interrogativi, paradossi, contraddizioni, sospetti e misteri di una Repubblica che pare impegnata
ad allontanare dai cittadini la soglia delle possibili certezze. La domanda si rivela sempre con tono
scettico, spesso rassegnato come se il distacco del Paese reale da quello istituzionale si fosse allargato
invece che colmato in questi anni di democrazia consociativa e bloccata. La curiosità della domanda è
poi l’altra faccia della diffidenza nei confronti della risposta. Da giornalista ho avvertito, non senza
qualche imbarazzo, il ruolo di cinghia di trasmissione di una diffusa delusione politica.
È una delusione che non passa, come si potrebbe supporre a prima vista, attraverso il settarismo di
partito. Raramente mi è parso infatti di cogliere argomentazioni da tessera o schieramento, né il timbro
era quello di un qualunquismo da primo mattino, costruito su brontolii di corporazione addormentati
dentro l’egoismo del «particulare» di bottega. Al contrario, ho colto nelle voci la inalterabile
attendibilità dei problemi, quella concretezza dell’uomo della strada che non va scaricata sul ciglio
d’essa con il pretesto della banalità del quotidiano di fronte alle grandi scelte, della Politica. Che cos’è
una grande scelta se non un precipitato di istanze della base?
Più che preoccupata dai conflitti tra i Poteri dello Stato, la gente è smarrita a contatto con il Potere in
sé. Forse il Potere, oltre che deludere per il poco affidabile esercizio che troppe volte se ne fa, non
riesce nemmeno a spiegare il buono che realizza. Gli manca anche il linguaggio; anzi, più cresce la
comunicazione, più il cittadino la seleziona e ne diffida per legittima difesa. Non è la quantità
d’informazioni che fa da sola la democrazia, ma il grado di credibilità con cui circola.
Il disagio popolare nasconde una eccezionale occasione mancata, perché mai come oggi la
contestazione del Sistema ha lasciato il posto alla contestazione del Metodo, sicché non è più
nichilisticamente in discussione l’essenza del Potere ma soltanto il suo esercizio o, meglio, la sua
efficienza. Si tratta di un salto non da poco, che ha razionalizzato la passione civile a tal punto che
qualche vetero-sessantottino rimpiange ora i tempi in cui la «fantasia» fu la prima arma da puntare al
cuore dello Stato borghese.
Anche la gente più esposta ai problemi personali, anche le domande più dolorose che passano
attraverso le prime pagine, rifiutano oggi tanto l’utopia dell’impossibile quanto la sventatezza del Bel
Paese. Lo si coglie nelle voci di un microfono aperto: questa protesta è un paziente invito a governare,
indipendentemente da chi governa. Ad alimentarla provvede l’ostinato, in fondo ottimista sospetto che
l’amministrazione della cosa pubblica possa ancora definirsi servizio, non mestiere.
Non c’è riforma istituzionale che tenga mancando una riforma del Potere: senza quest’ultima, sarebbe
come avallare un falso in atto pubblico.
settembre 1984