1998 novembre 6 Per favore Massimo, spiegami Centocittà
1998 novembre 6 – Per favore Massimo, spiegami Centocittà
Non ho capito bene Bianco, Cacciari, Rutelli, che cito in ordine alfabetico, anche se l’ideologo del neo
«partito e/o movimento dei sindaci» è palesemente il secondo. Niente paura, il limite di comprensione
può riguardare soltanto me, ma debbo confessare di non aver capito quasi nulla, per quanto soffra
notoriamente di un pregiudizio semmai favorevole nei confronti dei sindaci. Li considero da anni il
meglio su piazza, il vero termostato istituzionale della società, se non l’unico che funzioni:
amministrano, ergo fanno scuola guida di governo. Quando abbandona le sovrastrutture, la politica
passa alla realtà dei problemi, pane quotidiano di chi amministra su mandato popolare. Il sindaco,
appunto, di garanzia, pur nell’incertezza della transizione senza riforme. Nessuno lo sa meglio di
Cacciari. Il ruolo mi risulta chiarissimo. Chiara anche la fase in cui il riferimento andava al Nordest,
perché realistici apparivano gli obiettivi. Rappresentanza di un territorio; visione nazionale del
«laboratorio»; incubazione di nuovo ceto politico e, soprattutto, l’issare sul pennone del Veneto la
bandiera del federalismo nonostante la Santa Alleanza tra centralismo e secessionismo. Rappresentava,
in quel preciso momento, il tentativo di reagire alla latente ingovernabilità amministrativa (tanto del
Veneto quanto del Friuli-Venezia Giulia) e alla crescente disaffezione politica (idem come sopra). Fin
qui, la trasversalità era un frutto del territorio. Sminava la questione settentrionale partendo dal suo
epicentro: il Veneto. Perciò era tutt’altro che velleitaria, anzi pragmatica, con i piedi per terra, nel
contesto, non generalista. S-radicata in grande, fino a farle covare inevitabilmente l’uovo del «partito»,
per quanto sui generis, la trasversalità di Centocittà non ha più nulla di territoriale, ma intende entrare a
pieno titolo in campo nazionale. Qui cominciano a mio parere i dolori o, mi correggo, le contraddizioni
dell’offerta dei sindaci. Se aspira a diventare l’Ulivo 2, lo si dica apertamente. Capirebbero tutti che
l’Ulivo 1 ha fatto harakiri, non riuscendo nemmeno a calcolare le forze parlamentari in campo, ma che
la sua esperienza deve soltanto trasbordare di pullman: le cento città girate in lungo e in largo, da sud a
nord, da Prodi, rinverdirebbero attraverso Centocittà di Bianco, Cacciari, Rutelli. Una sorta di Ulivo 2
fondato sui sindaci più che sui comitati Prodi, una riorganizzazione un po’ più programmata e un po’
meno elettorale, un nuovo polarismo di centrosinistra fondato su un club di sindaci supergiù di area, si
direbbe con un linguaggio vecchiotto. Un super comitato, su proposta dei municipi e, chissà, dei
«valori», buono anche per Di Pietro. È pressappoco così? Non so, non l’ho capito. Anche perché si
tratterebbe di un trasversalismo soltanto enunciato: ci sarà pure una ragione se i sindaci del Polo e della
Lega si autoescludono a priori. Il fatto è che intravvedono assestamenti in campo avverso, nient’altro,
mai Cosa anche loro. Anche il sogno di un «partito democratico» allo stato nascente sembra per
l’appunto un sogno, nel senso che il «partito democratico» ha già un nucleo pronto alla trasformazione
finale. È il partito di D’Alema, i ds post pds, i postpost pci. D’Alema ne ha fatta di strada, dal
capitalismo dell’uomo qualunque alla scuola privata, dalla Lega al Nordest. Ci voleva proprio un
postcomunista per riconoscere la concertazione alle piccole e medie imprese, inquietando Confindustria
più dello stesso sindacato. La sua è un’altra sinistra, ormai sul binario socialdemocratico, anche se più
Blair che Jospin e Schroeder. Lentamente ma ineluttabilmente, il suo sta diventando un altro partito, in
uscita dagli apparati: dal 1989 a oggi, i suoi «funzionari» di partito, cioè la nomenklatura, sono scesi da
duemilaquattrocento a duecentoquaranta mentre un quarto degli attuali seicentottantamila iscritti non
ha mai avuto la tessera del pci. Con Veltroni neosegretario, e D’Alema a Palazzo Chigi, il cammino
anche culturale verso un «partito democratico» non pu che accelerare. Addirittura con il rischio per i ds
che acceleri fin troppo, con sommo gaudio di Bertinotti e, stavolta, di Cossutta. Ha ragione Fistarol,
sindaco di Belluno, quando sostiene che ragionare per schieramento ideologico appartiene
all’«archeologia», come ha detto ieri a Paolo Possamai. Non fosse che il suo opposto, vale a dire questa
ultimissima «Cosa x» dei sindaci, si dimostra per ora abbastanza siderea. Nell’intenzione di Cacciari
troverebbe un enorme spazio nell’astensionismo, destinato a diventare in pratica il primo partito non
per disincanto all’americana bensì per nausea all’italiana. Intenzione lodevolissima e tuttavia azzardata
come ogni tentativo di inventare a tavolino un ennesimo partito Moulinex del non voto, della
disaffezione, della protesta reinvestita in proposta. Lo scarto tra i fini e i mezzi, tra il manifesto di
Cacciari e il mercato del consenso, finisce allora con il segnalare alcuni dati. Che questi sindaci sono al
secondo mandato, dunque l’ultimo. Che sono, per così dire, senza partito, «indipendenti», da Bianco a
Rutelli, per non dire di Cacciari che è soltanto Cacciari, il meno catalogabile di tutti. Che, infine,
misureranno alle europee dell’anno prossimo il grado di «novità». Il «partito dei sindaci» rischia così di
sembrare un «partito per i sindaci» residenti tra Quercia e Ulivo. In politica, ciò che sembra è, almeno
fino a quando Cacciari e Fistarol non si saranno in tal caso spiegati meglio.
6 novembre 1998