1999 Giugno 1 L’anticavallo
1999 Giugno 1 – L’anticavallo
Trent’anni fa dato per morto e sepolto, il ciclismo sopravvive con le sue folle e i suoi nuovi
Sandokan alla riscossa, “il pirata”, ”il leone”, la giungla d’asfalto. A metà degli anni sessanta
circolavano in Italia quattro milioni e mezzo di autoveicoli, oggi trentadue e passa: per chilometro,
abbiamo il numero di auto più alto del mondo, in percentuale addirittura più degli Stati Uniti.
L’auto razza padrona.
Espulsa dalle strade, la bicicletta ha perso il contesto sociale: come nuotare in una piscina priva
d’acqua. Fa bene alle coronarie e aiuta a beffare il traffico in città, ma per il resto sembrerebbe
appartenere alla belle èpoque. L’”anticavallo” delle pagine di Gianni Brera.
Non è andata così. Ucciso dall’automobile di massa, il ciclismo è risuscitato con la televisione di
massa, che lo ha finalmente svelato.
Prima della telecamera, lo sport più misterioso e onirico. Lo potevi immaginare, quasi mai fermare;
attendevi il passaggio del Giro d’Italia per ore archiviandone un lampo, e già la schiena del gruppo
svoltava all’angolo dei tuoi occhi. A volte, si depositano icone, come in Ugo Koblet in maglia rosa
sul rettilineo tra Gorgo al Monticano e Motta di Livenza mentre estrae il pettine dal tascone e si
liscia i capelli con la stessa infinita eleganza della sua pedalata. Divo ante-marcia era stato
battezzato “pedalatore di grazia”.
Era un amore per frammenti e fotogrammi, il ciclismo. La radio non faceva cronaca, faceva
sognare, con l’immaginazione dei bambini quando ascoltano le fiabe materne. Seguire alla radio
un giro o un tour era come costruirsi giorno per giorno un romanzo d’appendice, che si animava
dentro ciascuno. Da ragazzo, l’Izoard mi suonava dentro come la lama di un rasoio, il Pordoi come
un dio nervoso.
Ma nessuno sport ha tratto dalla televisione tanto vantaggio quanto il ciclismo. E’ finito il sogno
non il suo èpos; l’attimo fuggente, non la sua ricerca di eroi. Mi ha detto Felice Gimondi, buono
come il pan biscotto : “Ogni volta che nasce un campione, rinasce il ciclismo”.
Un giorno ho chiesto a due trevigiani-a-due-ruote di definirmi il ciclismo con una sola parola.
“Fatica” rispose Teofilo Sanson. “Ricordo” aggiunse Egidio Fior. Il ricordo e la fatica, la fatica del
ricordo e il ricordo della fatica, un labirinto di “come eravamo” e di parabola del vivere, ieri la
fatica contadina oggi la fatica del limite. Questo è, per questo dura.
Le carovane degli antichi persiani mettevano in fila i cammelli, quelle dei serenissimi veneziani le
navi. La carovana del Giro si porta dietro tutto, passato, presente e futuro, è questo il bello del
ciclismo, il sudore della tecnologia, la polvere sull’organizzazione, il rischio sulla festa. Carovane di
memorie.
Gianpaolo Ormezzano, da 40 anni su strada, identifica il ciclismo con “la gastronomia”, la tavola,
l’osteria, l’abbuffata. So cosa vuol dirmi: è la gastronomia dell’amicizia, un vivere in gruppo e
staccarsi soltanto per vincere, l’unica solitudine che il ciclismo ti perdona.
Non è retorica, ma il tempo che si raggomitola magicamente su sé stesso. I quadricipiti di Cipollini
s’inarcano come quelli di Rik Van Steenbergen, gli strappi di Pantani mimano Charly Gaul, che
perse un giro per dar comodamente retta a un impulso del colon. Sulla mitica Alfa Romeo del
Giorno di Milano , guidata dal “Peep” autista prediletto di Brera e di Fossati, siamo stati sulla
ruota di Eddie Mercks lungo le Tre Cime di Lavaredo nella tormenta: su quei gomiti di asfalto
spalmato di neve fresca, gelavano i fiati nei polmoni, le dita sul manubrio, le palpebre verso il
traguardo. Ogni giro aggiunge alla carovana un bagaglio d’archivio, e se lo porta dietro.
Ci siamo sbagliati tutti. Il ciclismo non stava morendo, aspettava soltanto di mostrarsi: all’inizio
degli anni sessanta, l’intera troupe radiotelevisiva era composta di 36 persone, oggi di 557.
L’organizzazione (imprenditoriale) ha salvato il circo (popolare) e lo spettacolo (mediatico) non si è
mangiato il gesto (atletico). Però non so più se la vera maglia rosa sia Pantani o Adriano De Zan,
anche se il telecronista non deve sottoporsi a esami antidoping.