2000 Zio Ampleto e noi tifosi ferraristi

2000 – Zio Ampleto e noi tifosi ferraristi
La memoria

La storia è questa. Lui si chiamava Ampleto, di Monasier di Treviso; lei si chiama
Ferrari di Maranello di Modena.
Ampleto aveva cinquant’anni e un originale nome di battesimo, forse con antiche
ascendenze greche e slovene, che rimandano all’idea dell’abbracciare: è morto
quindici giorni fa in uno strano incidente stradale, senza frenata, addosso a un platano.
Un abbraccio fatale.
Una storia come tante, dalle nostre parti, soprattutto in provincia di Treviso. Ma l’altro
ieri il nipote di Ampleto ha scritto una letterina alla Ferrari (che pubblichiamo nelle
pagine interne).
Per ricordare che lo zio apparteneva allo sterminato popolo ferrarista e che si sentiva a
tal punto ferrarista da considerare suo “amico” personale il povero Gilles Villeneuve,
che mai aveva conosciuto di persona.
Cara Ferrari, ha scritto il nipote, “hai perso un tifoso che si credeva uno di voi”. Caro
amico, ha risposto il direttore della casa di Maranello, “la Ferrari corre per i suoi
tifosi”.
A questo punto so già che i cinici, gli scafati, i drittoni, la gente con la testa sul collo, i
benpensanti, cioè quelli che “hanno altro a cui pensare”, si sono già stufati di leggermi
e di compatirmi. Meglio così: continuo con gli ingenui come me, con quelli che
coltivano vecchie passioni da ragazzi e che si rifugiano senza pudore nella sola
ideologia sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino.
Il tifo: che non va idealizzato con l’aggettivo perbenista “sportivo”; tifo e basta, allo
stato cristallino.
Sono storie minime, di piccola umanità, ma io le capisco fino in fondo. Le piccole
cose della vita quotidiana hanno bisogno di grandi sogni: se vince la “mia” squadra
dico “abbiamo vinto”; se perde il “mio” pilota di Formula uno dico “abbiamo perso”.
(E ci deve essere una ragione se, quando gareggiano i Mastella e i Buttiglione, non
riesco nemmeno a a comprendere chi vinca e chi perda).
La Ferrari è un caso specialissimo. È Casa Italia, non una casa automobilistica, questo
il punto, e basta far visita allo stabilimento di Maranello per intuire tutto.
La sensazione è del luogo santo. Il meccanico che mi fece vedere il primo dieci
cilindri sollevò un telo bianco come se avesse scoperto la sacra Sindone. Quasi quasi
piegai il ginocchio.
In fonderia, non ne parliamo. Tra leghe di alluminio e magnesio, stampi di precisione
spaziale, resine autoindurenti, gli operai seguono la nascita liquida del motore come i
napoletani il sangue di San Gennaro.
La Ferrari è della Fiat, ma qui il padrone non sarà mai Gianni Agnelli. L’avvocato si
deve rassegnare, e sarà sempre così, all’usufrutto di Enzo Ferrari, che ho sentito
chiamare “maestro”, inventore di un mito rosso che l’anno scorso ha venduto 3.775
esemplari nel mondo, da 250/300 milioni ciascuno.
Nel tifo per la Formula uno, inseguiamo il sogno, la vittoria sulle angherie del vivere,
i nuovi idoli, un tentativo di perfezione, anche l’inconscia voglia di estremo e di no-
limits.
Non c’entrano i soldi, i 50 miliardi di stipendio di Schumacher, che sono un quarto dei
200 miliardi del cestista americano Michael Jordan nel 1998 e meno di un quarto del
golfista americano ventitreenne Tiger Woods nel 1999. La sfida non paga il limite.

Hakkinen è un sopravvissuto al coma; Schumacher ha conosciuto il dolore e la paura.
Villeneuve si accasciò come una rondine sulla rete di recinzione; Senna lasciò sulla
pista di Imola litri di sangue e di nostalgia.
“Avete perso un tifoso che si credeva uno di voi”, dice la lettera spedita alla Ferrari da
Monastier di Treviso. Credersi qualcun altro e non sentirsi mai soli, ma “uno di voi”.
Il tifo questi miracoli li fa. Ed io batto il tasto di quest’ultima riga con l’indice destro
che mi fa un male boia: domenica sera, per l’Inter, mi sono sbranato le unghie fino
all’osso. Ma “abbiamo” vinto.
Perché mai Ampleto Rizzetto, suo nipote ed io dovremmo scusarci?