2002 novembre 24 Nuova costituzione
2002 novembre 24 – Nuova costituzione. L’effetto Vanna Marchi sul riformismo italiano
Il federalismo non sarà un argomento in sé divertente. Però, in Italia, lo diventa. Il presidente in
scadenza della Corte costituzionale, Cesare Ruperto, sostiene che «non si può e non si deve» fare nel
2003 una nuova riforma (pseudo) federalista, cioè la cosiddetta devolution del centrodestra, prima di
aver attuato la riforma (pseudo) federalista approvata nel 2001 dal centrosinistra. Si può discutere se
questo cumulo (pseudo) federalista sia utile o confusionario, ma deve essere chiaro che il Parlamento
pu invece fare ci che gli pare e quando gli pare senza che la Corte costituzionale possa battere al
riguardo nemmeno un ciglio. La Costituzione affida alla Consulta il compito esclusivo e non
impugnabile di dire se le leggi del Parlamento sono costituzionalmente legittime, ma non ha nemmeno
una sillaba di potere sulle scelte politiche dei rappresentanti del popolo sovrano. Sbagliate o giuste che
siano, fa lo stesso. Storicamente parlando, il professor Giovanni Sartori aggiunge da tempo che gli stati
federali sono nati coerentemente federali, mentre l’Italia sta facendo prove di federalismo da gamberi,
se così posso dire, il quale consiste nel retrocedere dallo Stato unitario verso la Repubblica federale. E
allora?, mi domando con tutto il rispetto e con simpatia per l’eminente studioso. L’Italia è l’Italia, il
nostro Stato è quello che è, noi dobbiamo trovare una soluzione originale per guarire dalla congenita
malattia centralista e burocratica. Mentre l’Europa si ristruttura, l’Italia potrebbe addirittura dimostrare
al mondo come uno Stato nato non federale possa essere modernizzato attraverso una buona e giusta
riforma federale. Savino Pezzotta, segretario generale della cisl, oppone un’altra obiezione: «Non si
possono fare modifiche alla Costituzione a colpi di maggioranza». Giusto, concordo in pieno, solo a
patto di non scordare tra le righe che l’anno scorso il centrosinistra spar fuori la sua modifica
costituzionale con quattro voti di maggioranza e a poche ore dalla fine della legislatura. Il leader pro
tempore dell’Ulivo, Francesco Rutelli, si dichiara poi sicuro che la devolution sia una drammatica
dissolution, con venti Regioni ciascuna dotata di venti sanità, di venti tipi di scuola, di venti polizie
regionali che decreterebbero la morte dello Stato e l’avvento, se ho capito bene, di un Paese di califfi
all’italiana. A Rutelli si può benissimo rispondere con Massimo Cacciari, che di federalismo ne sa sul
serio fin da quando studi assieme al mai abbastanza compianto professor Miglio, oppure con il
professor Gianfranco Pasquino, che insegna scienze politiche a Bologna, progressista tra i più
indipendenti e moderni. Non solo non ne è spaventato, ma il professor Pasquino considera lo (pseudo)
federalismo del centrosinistra «una riformetta» e, adesso, la devolution di Bossi una «piccola» cosa,
«limitata» e «inadeguata» perché riguarda «solo» sanità, scuola e polizia locale. Ha ragione da vendere;
chi ha testa federalista, non può che lasciare la propaganda alle adunate e attenersi alla realtà, «solo» a
quella. Ma veniamo a Cacciari. L’anno scorso il centrosinistra, da lui guidato in Veneto, ha messo nero
su bianco la proposta non solo della Costituzione della Regione autonoma, ma anche di un referendum
nazionale federalista di iniziativa popolare. Tanto per gradire, all’articolo 1 si vuole che il Senato venga
eletto su base regionale e sia composto da cento senatori finalmente federali. E tanto per completare,
all’articolo 4 si chiede che la Corte costituzionale sia composta – cito testualmente – «per un quarto
dalle rappresentanze di Regioni ed enti locali». Non so se mi spiego. Sulla scuola, la proposta prevede
che lo Stato possa dare solo «norme generali». Lo Stato conserva anche ordine pubblico e sicurezza
ma, attenzione, «ad esclusione della polizia amministrativa locale». Quest’ultima va alle Regioni.
Quanto alla sanità, devolution o non devolution, è praticamente già tutta delegata alle Regioni.
Massimo Cacciari e il professor Pasquino saranno forse due eversori? Vorranno proprio l’Italia in
dissoluzione che atterrisce Rutelli? Pensano da federalisti ma sotto sotto sono secessionisti? Lasciamo
perdere. Il fatto è che il federalismo nostrano paga ora due sciagure. La prima: un ceto politico
trasversalmente parassitario. La seconda: Umberto Bossi. Fare ad esempio un Senato delle Regioni
vuol dire licenziare un sacco di politici di mestiere. Costruire una Stato leggero significa svuotare una
sequela di rendite. Rifare l’unità dell’Italia attraverso l’unione delle autonomie sposta il baricentro della
politica, delle burocrazie, di tante lobby, di tanti poteri, di tanti privilegi. Per questo lo (pseudo)
federalismo allontana il federalismo. Perché la sua caricatura lascerà gli interessi intatti, là dove e come
stanno, impedendo di scommettere sul territorio. Per questo ceto parassitario l’onorevole Bossi è
paradossalmente il federalista ideale. Nel senso che proprio lui fornisce il perfetto alibi per osteggiare
ogni federalismo, anche nella «piccola» versione della sua devolution. Lui, ministro per le Riforme,
spinge padanamente a ostacolarle. Chi considera la devolution la fine dello Stato, fa avanspettacolo
istituzionale. Ma chi, come Bossi l’altro ieri a Pavia, invoca la devolution per porre fine alla «schiavitù
della Padania» dimostra di aver perduto nel 2002 anche il senso del ridicolo. L’unico pericolo che corre
l’Italia è sempre lo stesso. Il riformismo alla Vanna Marchi.
24 novembre 2002