1966 “Gli do un pugno”
1966 (Supersport)
“Gli do un pugno”
Con la Nazionale sono calati ad Appiano Gentile streghe, fantasmi, sospetti. La rivolta aperta. La
mela e il tarlo. Lasciamo perdere le raffiche di De Paoli. Le palpebre abbassate di Anzolin. I silenzi
di raccapriccio di Riva e Rizzo. Prendiamo Corso e le sue ultime dichiarazioni ante-siluramento.
« Ormai sono stufo di quanto sta succedendo… Se continua di questo passo mi fanno venire il
mal di gambe e peggio ».
« Il 1° luglio sarò in vacanza a Lignano Sabbiadoro ».
Sono parole di Corso Mario. E non hanno sorpreso nessuno. Sono reazioni, crepe che solo i
superficiali potevano ritenere improbabili. Tra Mario Corso e Fabbri Edmondo la guerra continua
perché la guerra non era mai cessata. E’ chiaro che si tratta di una chiusura « allergica » più che «
tecnica ». Di un deterioramento di rapporti insanabile. Perché l’antipatia istintiva, la sfiducia quasi
fisica non sono sanabili. Tra Corso e Fabbri c’è solo possibilità che il vallo si dilati, non certo si
riempia fino a costruire il ponte. Il braccio di ferro ha raggiunto lo zenit. Londra ha provocato la
scontata accelerazione. L’esclusione dai « 22 »!
Ma sono in gradi di rivelare che il deterioramento è cominciato addirittura il primo giorno
dell’operazione-mondiali. Il giorno in cui Edmondo Fabbri convocò gli azzurri in ritiro ad Asiago.
Quel giorno, il primo, il C.U. chiamò in disparte per un « trattamento speciale » Tarcisio Burgnich,
friulano, e Corso Mario, veronese.
A Burgnich il C.U. contestò di aver anteposto gli interessi personali (famiglia, vacanze) a quelli
della Nazionale in occasione della tournée estiva nei paesi scandinavi.
Burgnich rispose: « Lei sa che se mi lasica a casa mi fa un grosso piacere! Però, dal momento
che mi ha convocato e che mi farà giocare, stop, chiuso, mi va bene tutto, mi lasci in pace ». Fabbri
non fece una piega.
A Corso il C.U. contestò di aver rilasciato ai giornali, in particolare a SUPERSPORT,
dichiarazioni in cui sosteneva che lui, Fabbri, sempre prima della partenza per la tournée estiva, gli
aveva formalmente promesso di farlo giocare almeno un’intera partita. (Cosa che regolarmente
accadde). Fabbri negò di aver fatto una promessa del genere. Allora Corso ribatteva: « Va bene,
d’ora in poi i colloqui tra me e lei li metteremo per iscritto! » Fabbri non fece una piega.
Questo accadeva il primo giorno dell’« idillio azzurro ». A Bologna, dopo la partita contro la
Bulgaria, Corso, al diapason dell’irritazione, si lasciava sfuggire: « Se non mi fa giocare contro
l’Austria gli do un pugno e me ne vado! E’ l’unica cosa che ancora manca! ». A questo punto è
inutile rifare storie vecchie, il calvario di Parigi, la farsesca formazione per il « collaudo » di Corso
contro l’Austria. Per Rivera gioca sempre la formazione-tipo, per Corso si riesce al massimo a
rafforzare una squadra che non è una squadra. E’ chiaro che Fabbri Edmondo ha idee precise ab
aeterno sul (per lui) inesistente dilemma. A questo punto non si capisce perché Fabbri non abbia
avuto già da tempo il coraggio delle decisioni nette, inequivoche: sul tipo di quelle decisioni che
portarono Herrera a silurare Angelillo e Maschio contro tutti e contro tutto… raccogliendo alla fine
ampi e unanimi consensi! Evidentemente Fabbri Edmondo non è Helenio Herrera. Le idee precise si
possono al massimo discutere, la diplomazia da parrocchia, le incertezze croniche sono
inaccettabili. Freud, Jung, Adler non sono esistiti per Fabbri. E con essi non esiste la psicologia. Il
caso-Corso, tedioso ormai fino al sopore, lo dimostra senza equivoci. La fine della sua avventura
mondiale chiude anni di veleni e di guerra.