1967 novembre 7 Dall’Angelo, il Suarez dei poveri ha una spilla d’oro: Tiberi

1967 novembre 7

I due centrocampisti sono la chiave di tanti successi

Dall’Angelo, il Suarez dei poveri ha una spilla d’oro: Tiberi

Sono tutti e due del ’38. Lucio Dell’Angelo, goriziano, i ventinove anni li ha compiuti in aprile;
Sandro Tiberi, romano, tra quattro giorni. Una mezz’ala e un mediano: il centrocampo dell’Atalanta
di Tabanelli. Li ho incontrati domenica scorsa nello spogliatoio di Bergamo, dopo il pareggio con il
Torino. Erano appartati dagli altri, seduti sulla stessa panca, ognuno con una tazza di the caldo in
mano. Parlavano della partita, del Torino. Dicevano le stesse cose, pensavano le stesse cose ed il
discorso che ne usciva, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, era tanto a senso unico da sembrare
organizzato su un copione studiato assieme. La cosa era così curiosa da sembrare perfino ridicola,
ma a pensarci bene non era che il riflesso di una mentalità che li caratterizza entrambi. Dell’Angelo
e Tiberi rimasero impressionati dalla velocità, dal dinamismo, dal movimento del Torino. Rimasero
impressionati da quelle che sono anche le loro personali caratteristiche. Nonostante i ventinove
anni, infatti, velocità, dinamismo, movimento restano i loro connotati calcistici più immediatamente
riconoscibili.

Lucio Dell’Angelo, già quando era a Firenze, era stato ribattezzato il « Suarez dei poveri ». Lo
chiamavano « Suarez » così per dire che dava un rendimento costante, un peso continuo al gioco
della squadra, un’impronta accettabile. Aggiungevano « dei poveri » perchè gli mancava lo stile del
grande asso spagnolo, l’intuizione geniale, la rapidità intellettuale della regìa. Dell’Angelo ha
sempre accettato questa definizione, ma ha anche sempre voluto restringerne i confini e spiegarla
bene. Dell’Angelo è molto orgoglioso: la semplicità, la normalità del suo gioco non riflettono il
temperamento che è conscio di sè, tendente alla sopravalutazione più che al contrario di essa. Ci
diceva a Sarnico, nell’incantevole ritiro scelto sulla riva del Lago d’Iseo prima della partita con il
Torino:

« Anch’io so fare le cose di classe: proprio l’ultima volta, in area di rigore, su un lancio che mi
arrivava e che avrei potuto prendere, ho fatto una stupenda e finta, lo dico senza modestia!, ed ha
segnato Savoldi. Nessuno però l’ha fatto notare: d’altra parte è il destino di molti centrocampisti
come noi, di me come di De Sisti, tanto per non fare nomi. La gente sembra ricordarsi soltanto di
quelli che fanno un gol, e non di chi glielo fa fare. Un’altra volta, mi sembra con il Varese, mi
viene una palla da destra: ho quaranta probabilità su cento di segnare, se tiro io, ma il mio
compagno ne ha altrettante, e allora io gli dò la palla e lui fa il gol: questo è il mio gioco. Ma spesso
non viene riconosciuto e questa è l’unica cosa che mi dispiace ».

Il ragionamento di Dell’Angelo è esatto. La sincerità sua non è di quelle che sorprendono: anzi,
conquista. Con quel suo stile caratteristico (sembra che corra, non so, come… seduto ), ha novanta
minuti di autonomia, di coraggio, di lavoro del tipo chiamato « oscuro ». Dice di rimpiangere i
mancati riconoscimenti, ma il suo vero, anche se non confessato rimpianto, si chiama Cile: nel ’62,
prima della partenza per i mondiali cileni, aveva nove probabilità su dieci di esser selezionato, ma,
all’ultimo momento, quando sui giornali il suo nome era ormai dato per scontato, quasi, ebbe un
infortunio al piede e fu tolto di mezzo. E’ stato quello un attimo perduto, un momento in cui la sua
carriera prese forse una svolta, meno importante, più in sordina di quella che avrebbe potuto essere,
chissà.

Oggi alla carriera non pensa più. Pensa ad essere se stesso, ad essere in forma fisicamente, ad
avere i muscoli sciolti, duri, da fondista sui cinquemila o diecimila metri. L’Atalanta, il clima da
buona famiglia, sembrano averlo riscoperto per quello che è. Ma Dell’Angelo, l’orgoglioso, mi
ripete due volte: « Molta parte del merito è del preparatore fisico, il professor Calligaris ». Una
ammissione che, in bocca a Dell’Angelo, vale il doppio.

Sandro Tiberi è ritornato a… Vicenza, e vi ha ritrovato la valore sua dimensione, il suo valore
(che è grande), la sua forza, il suo stile. Gioca con grinta impareggiabile, è promotore di quaranta
azioni a partita:

« La quantità di gioco che fa Tiberi — ammette l’allenatore Tabanelli è impressionante »
« E’ ritornato a Vicenza — dicevo — perchè l’ambiente di Bergamo è la fotocopia di quello di
Vicenza. Allora c’era Manlio Scopigno, che Tiberi considera « il migliore di tutti ». E fu infatti per
questa considerazione che accettò il trasferimento a Cagliari. « L’inferno » come lui lo chiama. La
chiusura da parte di alcuni compagni, che vedevano in lui soltanto il privilegiato « uomo di
Scopigno »; l’incuria dei dirigenti che, per incidenti e malanni di poco conto, gli appiopparono sei
mesi di riposo.

Tiberi con il Cagliari non ha più rapporti, ma il Cagliari è in lui come spinta, come movente. Sì,
perchè lo consideravano un fallito, un inutile peso, un bluff. Ad un certo punto la gente credette
anche alla favola che fosse debole di vista. Ed ora Tiberi gioca con l’Atalanta, ma un cordone
polemico lo lega al passato: vuol dimostrare tutto il contrario di quanto era stato dato per scontato
l’anno scorso.

« A Cagliari mi rimpiangeranno », dice. Ma a Cagliari forse lo hanno già rimpianto: quando
hanno sentito che lui, Tiberi, era il migliore contro l’Inter, che domenica dietro domenica, era tra i
primi tre in campo dell’Atalanta per spinta, per gioco, per partecipazione, con quel suo classico stile
nervoso, a volte belluino, con una falcata allungata e i calzettoni alla Corso. Tiberi fallito? Una
barzelletta.

Questo è il centrocampo dell’Atalanta: una mezz’ala e un mediano. Un Suarez dei poveri pieno di
orgoglio, di consapevolezza, di ambizione. E la scoperta di Manlio Scopigno, nutrita di spirito
revanscista, polemico. La somma di queste due spinte personali, vale. Nell’incertissima lotta per la
salvezza, il pubblico di Bergamo può contare anche su questo.