1968 maggio 31 Nella nostalgia di Taccone il perchè di tante cadute

1968 maggio 31 (Il Gazzettino)

« Basterebbero due pastiglie per ritrovare i riflessi »
Nella nostalgia di Taccone il perché di tante cadute
Il rimpianto di un disincanto e le speranze di un amico – Nessuna spinta nella tappa-omaggio

(DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE)
Monte Grappa, 30 maggio
« Quando si soffre troppo non si sta mai bene ». Taccone, l’abruzzese, è seduto su uno scalino
antico: sotto il portale del duomo di Trento, romanico di una bellezza straordinaria. Taccone ha
gambe corte, strambe, con muscoli che sembrano attaccati a caso. Due gambe come le radici di un
platano. « Corro soltanto con la destra ». Sulla coscia sinistra ha una grossa placca bianca, garza
imbottita di antibiotico. Dov’è Taccone, l’abruzzese, il personaggio? Trentesimo… distaccato di
mezz’ora? Forse di più? « Si cade troppo, cadiamo tutti! ». Il portale del duomo come un
confessionale liberatorio. Perchè si cade? Taccone parla tra le grinze di una pelle unta, di serpente:
« E’ colpa dell’antidoping ».

In che senso? « Abbiamo perso nei riflessi. Quando c’è una salita discreta, ti trovi in discesa
almeno 70-80 curve pericolose, da calcolare al millimetro. Prima uno si prendeva un paio di
pastiglie di « Stenamina » e aveva gli occhi aperti. Adesso è finita: la « Stenamina » è positiva.
Abbiamo perso qualcosa e non abbiamo guadagnato nulla, anzi ». Taccone si comprime lo stomaco
sotto la maglia gialla: « Adesso ci imbottiscono di psico-tonici, di psico-fisici… di psico-tutto… di
un sacco di pastiglie che rovinano lo stomaco. Così sono caduto, corro con una gamba sola e parto
per il Grappa con una puntura di novocaina per non sentir dolore ».

50 anni fa

Taccone Vito mi guarda: «Com’è il Grappa?». E’ asfaltato, ha un tratto che tira nella prima parte,
poi non può « far selezione ». Quando cominciamo a salire, abbiamo ancora nella retina la folla di
Thiene, larga, senza vuoti, con cartelli pieni di Merckx, tifato come un uomo di casa, perchè è un
asso ed ha la faccia simpatica, con gli zigomi e il taglio degli occhi da mongolo.

Il Monte Grappa, scalato la prima volta dal Giro. 1775 metri di storia, incisa sasso per sasso. E’
piazzato al centro di tre valli, del Brenta, del Cismon e del Piave; non è un monte « bello » piuttosto
brullo, tormentato. Ricordo episodi raccontati da mio padre, da vecchi amici. Quando, metro per
metro, dove salgo con una comoda Opel, dove pedala Merckx, dove « bestemmia » Taccone,
bisognava muoversi in punta di piedi perchè il terreno era minato dalle « signorine » (così
chiamavano le bombe a mano che scendevano con un paracadute piroettando morbide). Un giorno,
cinquanta anni fa, cominciarono a seppellire centinaia di morti: erano buche fresche, con poca terra
stesa sopra. Dopo qualche giorno cominciò a piovere. L’acqua scivolava sul pendio e portava via la
sepoltura. Di lontano lo spettacolo era allucinante: centinaia di buche scoperte con il sole che
cuoceva.

Il Grappa non è « bello », ma chi 1’ha vissuto non può ricordare e chi l’ha sentito raccontare non
può non ricordare. Il giro è venuto su per questo monte: è giusto che non ci sia stata selezione
tecnica, che l’asfalto abbia tenuto assieme agli assi. Perchè questa doveva essere una « deviazione »,
una tappa-omaggio. Lo è stata in tutti i sensi. Mi diceva un amico che ha caricato a Camposolagna:

« Oggi avrei piacere che vincesse un italiano». Non credo che sia retorica. L’amico è laureato in
filosofia, è di Crespano del Grappa ed ha colorazioni « cinesi ».

Emilio Casalini è stato lo strumento tecnico di questa esigenza illogica, ma intuita da tutti.
Casalini ha strappato il Grappa a Merckx, l’asso che vince « dappertutto ». Non doveva correre il
Giro questo Casalini. Prima di lui c’era Denti, nella Faema, ma Denti voleva fare il gregario di
Merckx, non di Adorni. Quest’ ultimo lo rifiutò e impose un uomo « suo », Casalini di Panna, il
corridore che oggi ha « punito » e ha procurato un ordine d’arrivo italiano.

Il sole non c’era

C’era un sole caldo a Bassano del Grappa, Vincenzo Torriani, il Patron, uscì con la sua voce di
caverna dal tetto di un’auto: « Lo volevo nel sole questo arrivo ». Pensavamo al pubblico enorme di
Thiene, di Breganze, di Bassano ma è lungo questi venti chilometri che ho visto centinaia di
macchine con due ruote sull’asfalto e due, non lo so, pronte per la scarpata. Torriani pensava al sole.
Poi, gli ultimi chilometri, è sparito tutto. La valle come un camino; un’ondata di nebbia, di vapori
che strisciavano dal basso fino sulla strada. Un vento freddo, qualche goccia grossa e fredda. Un
salto di ambiente, di tensione, come in certe sinfonie di Sibelius. Incredibile, diceva un collega
romano. Xe sempre sta’ cusì, la gente di qua non faceva una piega dietro le transenne degli ultimi
metri. Un disincantato rimpiange il dramma: « Una tappa inutile, non ha detto nulla ». Eppure,
anche tecnicamente, è successo qualcosa. Nessuno ha visto le famigerate spinte. Qualcuno chiedeva
timido: « Casalini, posso? » Casalini, che stava esalando gli ultimi due chilometri, scuoteva la testa
« no, grazie ».

Sono in sala stampa. Almeno novanta macchine da scrivere in funzione. Vorrei proporre una
censura ai novanta « pezzi ». Togliamo via, per un giorno, queste parole: vittoria, sconfitta,
dramma, partire, sofferenza, esaltante, perdere, cadere. Dal bollettino medico via i « feriti » (se ci
sono): diciamo « contusi » e basta. Dice: che significa? Questa è una corsa, con muscoli, dieta,
rapporti, tabelle di marcia, piani e farmacologia. Dice: Non facciamo retorica.

Ma se la tappa non ha detto nulla tecnicamente, perchè non deve dir nulla, nemmeno un clic
mentale, come tappa-omaggio? Dietro alle spalle ho una finestra. C’è la nebbia e la macchina della
Germanvox Wega. Sul parafango una maglia gialla appena smessa. Forse è la maglia di Taccone
Vito, arrivato quassù con la grossa garza di antibiotici e una immensa umana nostalgia: due
pastiglie, due soltanto, di « stenamina ».