1971 maggio 28 Picchi. La Juve nasceva, lui cominciava a morire
1971 maggio 28 – La Juve nasceva lui cominciava a morire
Erano i giorni di Mexico ’70. Un quotidiano di Roma pubblica in prima pagina una dichiarazione
scritta di pugno da Marchini: “ Non ho venduto né venderò Capello, Spinosi e Landini ”. Al centro
press dell’hotel Maria Isabel di Città del Messico incontro Armando Picchi.
Camicia a quadrettini blu e maniche corte, calzoni beige.
Ha le guance un po’ incavate con due profonde rughe, alla Arnoldo Foà, sui lati della bocca. Hai
sentito Marchini? Picchi incrocia le braccia, spegne un attimo gli occhi e ridacchia senza forzare:
“Beh, in fondo dice il vero. Non li ha venduti e non li venderà perchè li…sta vendendo! Oramai
manca soltanto la lacca rossa sui contratti. Spinosi, Cappello e Landini sono già miei ”.
La voce di basso, la forte inflessione livornese, calca il tono sull’aggettivo “ miei ”, come un mastro
don Gesualdo per la sua “ roba ”. Con quei tre boys, Picchi cerca l’alba di professionista della
panchina. Una panchina d’aristocrazia sportiva e finanziaria: la Juve. La Juve di Gianni Agnelli e
dei milioni di fans. Allora tutto bene? Non sorride, questa volta, Picchi. Portandosi il dorso della
mano destra fra reni e scapole, risponde: “ Non mi lamento, anche se ho un maledetto ghiribizzo
che mi dà noia, qua dietro ”.
Le asciutte rughe di Picchi già in Messico erano rughe di morte. Di una malattia che ci divora come
il giaguaro divora la colomba.
Dal 19 febbraio scorso, poche ore prima di Italia-Spagna a Cagliari, non ci fu più mistero, né
incertezza: tutti i giornalisti italiani sapevano. Ma, tacitamente, nessuno ruppe un’omertà che
affondava radici nella solidarietà, nell’amicizia: per una volta, più forte dell’informazione. Picchi
leggeva i giornali. Non doveva sapere da noi prima di avere intuito da solo.
Per proteste “ alla toscana ” il giovane e severo arbitro Mascali aveva espulso Picchi a Bologna,
quando Picchi stava entrando in clinica. Pallido, scavato, lo sguardo malinconico, un cappotto nero
e il bavero alzato: la gente non sapeva che era quello il suo ultimo flash. L’avvocato Barbè
squalificò Picchi. In appello, la commissione disciplinare ascoltò l’arbitro, Mascali ribadiva il suo
rigoroso rapporto. Allora, un giudice gli chiese: ma lei sa che cos’ha il signor Picchi?
Mascali rispose no. Poi, mortificato, aggiunse: “ Mi dispiace io non ne sapevo nulla ”.
La squalifica fu ammorbidita.
Setacciati da Italo Allodi, rari personaggi sono entrati nella camera di Picchi. Come Suarez, come
Moratti. E tutti dovevano saper recitare, fingere. Fingere perchè di tutte le agonie, l’agonia di un
atleta, a 36 anni, è la più innaturale. Fingere perchè sotto quelle lenzuola non stava un corpo
qualunque, ma il corpo di un asso dello sport. Piedi piccoli ( numero 39) usciti indenni da migliaia
di tackle virili; gambe corte, di coscia ipertrofica tutta un groppo di muscolo; cuore di battito solido,
come una campana; polmoni per catturare molti, moltissimi litri d’ossigeno.
Picchi è Consolini, è Faggin, è Lilian Board: è il male che, non potendo essere parziale, diventa
mortale. E’ il male che, incapace di aggredire organi esemplari e giovani, porta via il tutto.
Era il no al gol, il catenaccio, lo stop in area di rigore. Picchi era un Blason moderno. Tackle basso e
posizione, le sue specialità.
Regista difensivo, dove regia significa cervello e ascendente sugli altri. Era il boss della squadra. Se
chiamava “ mago ” Helenio, era per sfottere, non per lisciare. Ma proprio di Herrera voleva
trasmettere l’impronta sulla panchina della Juve.
“ Andava in cerca dell’alba, e l’alba non esisteva ”, dice il lamento di Lorca per la morte di Ignazio
Sancez. Anche Ignazio, il torero è un atleta. Senza alba, come Armando Picchi, vecchio caro
catenacciaro del football.