1971 ottobre 27 Un’epigrafe per Siffert

1971 ottobre 27 – Un’epigrafe per Siffert
Il solito processo – La “sicurezza” in uno sport che sorride alla
morte

Figlio di agricoltori, Jo Siffert è morto in una Brm incenerita
quando, pigiando con rabbia l’acceleratore, era finalmente riuscito
a trasformare circuiti in rendita. E la cenere era ancora calda
mentre scattava, per meccanismo emozionale, il Processo. Il solito
processo a tutto ciò che leghi un uomo ad un’auto e a una pista.
Da anni, per chi muore come Siffert non si parla di incidente ma
quasi sempre di assassinio. Correre è il delitto. Proprio ieri, in un
dibattito alla Radio, ho sentito dire: “Siffert è stato sicuramente
tradito”.
48 ore fa, il direttore dell’Autodelta ha dichiarato: “Dopo due anni di
studio, siamo riusciti a costruire un serbatoio di spugna sintetica,
dalla capacità di cento litri di carburante, resistente a qualsiasi
urto”. Questa è una risposta seria e costruttiva al rogo di Siffert.
Seria perché è la stessa Tecnica che, dopo aver aggredito il Mito
della velocità, cerca di evitarne il tasso sacrificale. Costruttiva
perché non si ferma al piagnisteo decadentista e lo supera invece
senza negare il futuro, sia pure condito di dolore, di lutto, di antitesi
crudeli.
Sarebbe bastata una rete per attutite il terrapieno? Esiste la
possibilità di ricevere addosso, senza frantumarla, un’auto a 240
km orari? Ci
regolamenti omicidi? Sopravvivono
esasperazioni di costruttori? Sono i grandi interrogativi che la
demagogia brutalizza e che soltanto una tecnica umanitaria può
placare.
Sottoporre ogni corsa ad autopsia-da-delitto storce invece i Valori,
ed eclissa la verità nell’illusione di un paradiso terrestre che non ci
sarà mai. Perché sempre la velocità, che è una “vita in fretta”,
esalta e uccide. Perché anche il rischio, persino il destino di
kamikaze, può essere scelta cosciente.
Rammentare l’inferno non significa dimenticare il paradiso né
impigrire il dovere della Sicurezza. I piloti, non disertando le piste,
ne sono convinti. Ed è lo stesso pubblico a guardare, dai bordi
della pista, come ad una corrida di uomini dove la certezza del
sangue è sostituita dalla paura del sangue, dall’angoscia di una
curva, dal mistero di un incidente, dalla solidarietà per un uomo
svincolatosi dalle prudenze della conservazione. E’ il pubblico di
uno sport che sorride alla morte. E’ il pubblico che scoprì l’Apollo

sono

15 soltanto quando una perdita d’ossigeno innestò in noi tutta la
paura: non una Brm ma persino una capsula spaziale può
diventare routine. Ha detto Stewart: “Tutti noi sentiamo che non
vale la pena di correre, ma poi superiamo il momento e
ricominciamo”. E’ questa l’unica sincera epigrafe per Jo Siffert.