1972 agosto 26 Aperta l’Olimpiade

1972 agosto 26 – Aperta l’Olimpiade

“ Wilkommen ” è la prima parola che appare sul tabellone: Monaco dà il benvenuto alla ventesima
Olimpiade, mentre il cielo è quasi terso e un flebile venticello solleva 123 bandiere per 8.500 atleti.
Con un’ora di anticipo, l’ Olympiastadion è colmo. Tutti posti a sedere. Un ordine impeccabile,
anche se non si vede una divisa militare che sia una. Su tutto, s’allunga lo sguardo di un quarto
d’umanità, poiché la televisione sta trasmettendo per un miliardo di spettatori.
Dire che questo è il perfezionista spettacolo al quale ho mai assistito, mi pare persino sciatto. Siamo
entrati in tribuna camminando sulla moquette crema, abbiamo aspettato la cerimonia in poltrone di
pelle bianca, lavoriamo sotto un tetto che nemmeno nei fumetti di Gordon potremmo mai incontrare
e che, per la prima volta nella storia dell’architettura sportiva, copre senza rubare la luce.
E’ uno spettacolo che il film ufficiale di Monaco ’72 porterà tra qualche mese nei cinema di tutto il
mondo. Per girarlo, sono qui con le loro troupes registi come il giapponese Ichikawa che, con 34
cineprese, filmerà simultaneamente l’uomo più veloce del mondo; il francese Lelouch, il poeta di
“Un uomo e una donna ”, venuto a Monaco per fissare la tristezza degli sconfitti; e Franco Zeffirelli
che, dopo “ Romeo e Giulietta ”, dedicherà le sue evocanti sequenze alla fiaccola, fino alle sue
radici classiche.
Mentre suonava il carillon di Radio Hilversum, 3.200 ragazzi di Monaco, dai 10 ai 14 anni, si sono
seduti lungo la pista di rekortan tenendo in mano bouquet di fiori: sono stati loro il primo gesto
scenografico della cerimonia, aperta ufficialmente alle 14.58′ con l’arrivo del Presidente della
Repubblica, dott. Heinemann.
Accanto a lui, Carlo Gustavo di Svezia, Ranieri di Monaco e Grace Kelly, i principi di Danimarca,
il cancelliere Willy Brandt, l’ex cancelliere Kiesinger e il padre del miracolo economico tedesco,
Ludwig Erhard, con l’immancabile “ avana ” tra le labbra. Canti del folclore, tradotti in marcette
dall’orchestra di Kurt Edelhagen, battono il passo della stilata, che è una stretta di mano, un dirsi
ciao, un mostrarsi con i propri colori, della bandiera, della pelle, delle divise, dell’ethnos come
cultura. L’ordine di sfilata viene secondo l’alfabeto teutonico. Le uniche eccezioni sono previste dal
cerimoniale olimpico per la prima e per l’ultima nazione: apre infatti la Grecia, omaggio al Mito, e
chiude la Germania Federale, tetimone dell’oggi. Sto a non più di quindici metri dalla pista. I
supermen dello sport sono incuriositi, quasi sempre divertiti, solo raramente annoiati. Gli etiopi
vestono candidi barracani di seta, dal tratto sacerdotale. Gli albanesi, in sei, sono seri fino al
patetico. Il primato dell’anarchia scenica tocca all’Afghanistan: nessuno tiene infatti il passo, la
gente ride e lancia esclamativi, visto che per i Deutsch la precisione è più istintuale del vagito.
Nello staff dell’Australia, non si vede la Gould, rimasta ad allenarsi in piscina. Le bermude passano
in paglietta e celeberrimi calzoni al ginocchio. L’Honduras britannico pare un reparto di geriatria: in
tutto sono due anziani personaggi, dai capelli bianchi. Il gruppo più eterogeneo è il Brasile, terra di
incroci razziali. L’applauso per i tedeschi dell’Est suona solido e pure formale.
Qualche fischio alla Francia che esporta moda per vocazione: sono le francesi, in fiammante rosso,
le atlete più eleganti.
Un keniota urla il saluto sotto la tribuna. In lilla, gli inglesi incarnano lo stile. Gli indiani sono
arrivati in turbante viola, i mongoli si sono fatti precedere da maestosi lottatori a torso nudo, bardati
come su un ring. Ottantamila tedeschi salutano, con sentita partecipazione, gli israeliani. Tra il
pubblico, tifo possente l’ha trovato il Giappone, tra migliaia di bandiere bianche con il sol levante.
Espansivi in ogni gesto e in ogni passo, i messicani con sombrero vengono scanditi con le mani,
forse il saluto più denso di simpatia.
I rumeni recano rose rosse. Condotta da Abdom Pamich, alla sua quinta olimpiade, il tricolore
stretto forte nel palmo destro, l’Italia scivola via tranquilla, senza sottolineature. Terso come uno dei
suoi grandi laghi, il Canada porta cappellini con un’eccentrica penna rossa. L’Alto Volta, in
orgogliosi costumi, mostra la faccia della giovane Africa.
L’Austria cammina come se stesse nel suo habitat. Formosa esce con la dicitura “ Repubblica di
Cina” e sarà, quasi certamente, la sua ultima sfilata: a Montreal, infatti, tra quattro anni o non ci sarà

affatto o i suoi atleti saranno assieme ai cinesi di Pechino.
Per i sovietici, un fotografo di Mosca esce dalla fossa e scatta flash in primo piano. Il Portogallo
presenta, nella troupe, un fantino in giacca di velluto rosso…San Marino conosce quasi indifferenza.
Non c’è molto calore per gli Usa, che hanno come portabandiera Olga Conolly, cecoslovacca, e che
chiudono l’enorme teoria con il cestista Burleson, il più alto atleta dei giochi con i suoi due metri e
ventitrè centimetri. E’ la Germania Federale che mette lo stop alla sfilata: ora l’Olympiastadion
respira aria di casa, un momento meritatamente riservato a loro, ai tedeschi.
I 3.200 ragazzi di Monaco si alzano ora in piedi. Lungo la pista, si snodano in un cordone che
stringe 123 nazioni schierate sul prato: sarebbero dovute essere 124, ma ieri sera la Sierra Leone
non è scesa all’aeroporto. Le sono mancati i quattro milioni per condurre tre atleti a Monaco, ed è
questo il dettaglio forse più delicato, il ricordo della povertà nel Paese più ricco d’Europa, la
Germania.
I 3.200 ragazzi inarcano ghirlande, in un saggio che non ha la truce ritualità di antiche parate e che
incarna invece un sentimento di innocenza, e non tiene contatto con le nostre quotidiane angherie:
cantano in canone inglese del tredicesimo secolo, chiamato “ Rota”. S’agganciano al rendez-vous,
sul rekortan, tra due cosmi, due civiltà: i mariaches messicani e i lunghi corni alpini della tradizione
bavarese, cioè il pirotecnico e il solenne.
Il primo a salire sul palco davanti alle bandiere schierate è stato Avery Brundage. Non ha sorriso,
non ha confessato emozioni. Ha detto : “ Possano tutti gli atleti, con fair-play, realizzare
performances delle quali andar fieri ”. Avrei dato chissà che per conoscere, in quel momento, i
pensieri di questo impareggiabile patriarca olimpico, di ottantacinque anni, per il quale la vita ha
ormai il sapore di una nostalgia.
Il Presidente Heinemann ha poi dichiarato aperti i Giochi. Otto medaglie d’oro hanno issato la
bandiera olimpica e cinquemila colombi sono scappati in cielo, quasi un ventaglio in ascensione.
Qualcuno non ce l’ha fatta a entrare nel vento buono ed è ritornato a terra, uno tra le mani di una
brasiliana. Erano le 16.57 di Monaco quando la fiaccola è sbucata dal sottopassaggio, dopo 5.538
chilometri, portata da 5.976 tedofori, dalla Grecia alla Germania. La teneva ben alta, senza
stanchezza, un mezzofondista tedesco, Gunther Zahn, di diciotto anni, biondo, taglio corto dei
capelli, occhi ariani. Lo seguivano un africano, un americano, un asiatico e un australiano, per
garantire, nell’ingenuità dei simboli, l’ecumenismo dello sport.
Gli scalini che portano al braciere sono centoquarantacinque, gialli. Zahn li sale agili, dopo mesi
d’allenamento. Accende, misurando, nella lentezza dei gesti, il rito. Un rito che si trasferisce subito
al giuramento di lealtà, amicizia e dilettantismo: lo pronuncia Heidi Schuller, studentessa in
medicina di ventidue anni, saltatrice in lungo. Dopo il rullo dei tamburi, viene suonato un “ Inno ad
Apollo ” di un compositore polacco contemporaneo. La colonna sonora mi pare un po’ contorta, ma
ha il pregio di non frastornare, di non essere grancassa.
Ora, dopo il giuramento, lunghe ombre scendono sul prato. Siamo quasi al tramonto mentre
l’Olimpiade nasce. In questi giorni abbiamo tentato di capire Monaco senza paraocchi, senza pudori,
senza connivenze da melodramma sportivo. Della Olimpiade abbiamo segnato in rosso le cose che
gli uomini di buona volontà non possono accettare mai: discriminazioni razziali, finzioni
dilettantistiche, vuoto cinese, tarli della politica, ipertrofia del divismo. Ma oggi, dopo non esserci
risparmiati nemmeno il conto economico di Monaco ’72, è tempo di metamorfosi.
Arrivano i protagonisti, i records, la sofferenza dell’uomo solo con i propri limiti da superare e da
battere. Ora, i bluff cessano: “ Con il cronometro tra le mani – diceva Paola Pigni – quello che è, è”.
Una corsa verso la propria identità morale prima che fisica. Oggi, il patron olimpico tedesco, Willy
Daume, ha aggiunto: “ Qualunque sia l’idea che uno ha dei giochi e anche se noi non abbiamo da
proporre che soluzioni incomplete e fallaci, possa almeno trovare una festa della speranza ”.
Si, sul piano della speranza ci siamo. Solo le certezze partoriscono infatti sicura decadenza.